domenica 13 settembre 2009

11. Gli americani

In epoca storica, i primi contatti tra europei e nativi americani risalgono all’anno 1000, quando le navi vichinghe guidate da Leif Eriksson toccarono le coste del Labrador. I vichinghi furono cacciati via con la forza e non ritornarono più. Dovettero passare quasi 5 secoli prima che Colombo aprisse agli europei la via per quella che lui riteneva essere l’India, ma che in realtà era l’America.
Gli “Indiani” del nord vivono ad uno stadio più primitivo rispetto a quelli del Centro-Sud, in gruppi clanici e tribali, alcuni dei quali sono nomadi e si spostano, con le loro tende, al seguito delle mandrie, lungo le verdi distese delle praterie, altri sono stanziali, vivono in villaggi e praticano prevalentemente la caccia al bisonte, ma anche la pesca e l’agricoltura, lavorano la selce e l’osso, ed anche il rame, ma ignorano il ferro, sanno fabbricarsi archi e frecce, e anche il tomahawk, una grossa pietra solidamente legata ad un manico di legno. Non fondano città e non conoscono la scrittura. Non conoscono nemmeno la ruota e, per il trasporto, usano la canoa e il traino con cani. Ignorano i tessuti e usano le pelli animali, sia per vestirsi che per costruire le loro tende, o altro. Le donne si occupano dell’allevamento dei piccoli, delle attività agricole, della raccolta, della concia e della decorazione delle pelli e della preparazione del cibo, mentre gli uomini prediligono la caccia e vegliano sulla sicurezza del gruppo.
La religione è di tipo animistico: l’indiano crede che tutto ciò che esiste in natura sia animato da uno spirito, che vi siano spiriti buoni e spiriti malvagi, e che, al di sopra di tutti, troneggi il Grande Spirito. Ogni tribù o clan ritiene di discendere da un antenato mitico e riconosce un particolare legame con un animale, una pianta, un oggetto o un fenomeno naturale, che considera sacro, il cosiddetto totem. Anche gli uomini sono composti di spirito, che dà vita ai loro corpi. Dopo la morte, lo spirito si libera e comincia a vagare per il mondo, potendo ritornare fra gli uomini e condizionare le loro vite. Secondo gli indiani, questo complesso mondo di spiriti influenza il comportamento e la sorte degli uomini, nel bene e nel male. Cosa può fare l’uomo per propiziarsi i favori degli spiriti buoni e tenere lontani i malefici di quelli cattivi? La risposta degli indiani a questo interrogativo non è affatto originale e ripete, nella sostanza, il comportamento delle tribù preistoriche: essi ricorrono alle abilità di certi uomini straordinari, gli sciamani, che sono in grado di cogliere i segnali degli spiriti, di interpretarli e di volgerli a proprio favore.
Lo sciamano è il garante dei buoni rapporti tra gli spiriti e gli uomini e a lui ci si rivolge quando qualcosa di negativo viene a turbare lo stato di quiete della tribù, come un evento climatico avverso, una morte o una malattia. Se uno sta male, lo sciamano invoca gli spiriti maligni e intima loro di abbandonare quel corpo. Così facendo egli in realtà sta agendo sulla psiche del malato e sta sfruttando il potere della suggestione, che in molti casi porta alla guarigione. Se il malato muore, ciò viene interpretato come una punizione da parte degli spiriti, che sono stati offesi e che reclamano un qualche rito o sacrificio di espiazione e di riconciliazione.
A parte lo sciamano, gli indiani sono disposti a riconoscere una particolare importanza all’età e ritengono che la maggiore memoria degli anziani conferisca loro una maggiore saggezza e rispettabilità. Ciò non toglie che, all’interno della tribù, il rapporto fra le famiglie sia di tipo paritario. Di norma, ogni famiglia è guidata dal membro più anziano e provvede per sé. Le decisioni più importanti e di interesse generale vengono prese dal Consiglio degli anziani. Se una tribù si sente minacciata può eleggere un capo, in base all’età e alle sue qualità, e gli affida il compito di rappresentarli e di guidarli, ma senza conferirgli alcun potere stabile, né tanto meno trasmissibile ereditariamente. Talvolta, di fronte ad un pericolo particolarmente grave, due o più tribù possono stringere un’alleanza ed eleggere un capo comune. La guerra fra tribù è frequente, ma non ha scopi di conquista, servendo solo a fare razzia di beni e a stabilire una gerarchia di prestigio fra i vari capi tribù. All’arrivo di Cristoforo Colombo il Continente americano è popolato da 75 milioni di “indiani”, 25 al Nord, 50 al Sud (ZINN 2007: 21).

11.1. Colombo
Mentre queste popolazioni conducono ignare la loro vita semplice, in Europa si respira tutt’altra aria. Dopo che i turchi hanno conquistato Costantinopoli, vistesi sbarrare le vie commerciali con l’Oriente, l’Europa comincia a guardare ad Occidente: potrebbe raggiungere le Indie (così viene chiamato l’estremo Oriente) via mare, attraversando l’oceano Atlantico oppure circumnavigando il Continente africano. Perché vogliono raggiungere le Indie? Perché ritengono che esse siano ricche di oro e di uomini da asservire ai propri interessi. In altri termini, gli europei vogliono arrivare alle Indie per arricchirsi a spese delle popolazioni indigene. Ed è questa la motivazione che spinge Colombo. In cambio, Ferdinando e Isabella gli promettono il 10 per cento dei profitti, la carica di governatore delle terre scoperte e la fama che lo avrebbe accompagnato nei secoli grazie ad un nuovo titolo appositamente creato per lui: ammiraglio del Mare Oceano (ZINN 2007: 10).
Un giorno di ottobre del 1492 gli abitanti di un’isola delle Bahamas vedono avvicinarsi tre strane imbarcazioni. Sono le caravelle di Colombo, che, essendo convinto di essere arrivato nelle Indie, chiama “Indiani” quelle persone che gli vengono incontro a nuoto in atteggiamento amichevole e che, in realtà, sono gli “americani” arawak. Ne carica alcuni sulle caravelle, affinché gli indichino dove si trova l’oro che, è convinto, abbonda in quelle terre, e prosegue la navigazione, toccando le coste di Cuba e di Hispaniola, dove effettivamente trova tracce del prezioso metallo. Ormai è certo: quelle terre sono disseminate di miniere aurifere, che bisogna cercare con calma. Adesso bisogna far ritorno in patria per comunicare la notizia. Prima però costruisce un piccolo forte utilizzando il legname di una delle caravelle che si è incagliata, e vi lascia i 39 uomini dell’equipaggio con l’ordine di continuare a cercare e raccogliere l’oro.
Appreso che possono avere oro e schiavi in quantità, i sovrani di Spagna offrono a Colombo mezzi sufficienti allo scopo: 1200 uomini e ben 17 navi, che dovrebbero ritornare cariche di oro e schiavi. Giunto a Hispaniola (1495), Colombo scopre che i marinai che ha lasciato al forte sono stati uccisi e che i campi auriferi non ci sono. Comprensibilmente irritato, dà ordine agli arawak di cercare l’oro e commina a chi ritorna a mani vuote torture e morte. Intanto gli spagnoli si dividono le terre e le fanno coltivare agli indigeni, molti dei quali, non sopportando quei ritmi di lavoro, muoiono. Colombo ritorna in Spagna con un magro bottino, 1500 indiani, che vengono venduti come schiavi, ma la sua scoperta non cessa di eccitare la fantasia altri cercatori di ricchezze. Secondo Howard Zinn, in futuro Colombo sarà ricordato solo come un valente navigatore e non anche come l’iniziatore di un genocidio, che verrà portato a termine negli anni seguenti dai suoi successori (2007: 16). E qualcosa di simile accadrà in altre circostanze e in altri luoghi, quando Cortés sottometterà gli aztechi in Messico, Pizarro gli incas in Perù, i coloni inglesi i powhatan e i pequot in Virginia e in Massachussetts.

Agli inizi del XVI secolo, quando spagnoli, francesi e inglesi cominciano ad insediarsi stabilmente nell’America del nord, si stima che questo Continente sia abitato da non più di tre milioni di “indiani”. I primi ad arrivare nel Centroamerica sono gli spagnoli di Cortéz (1519). Chi sono costoro? Per la maggior parte sono uomini di origine plebea (contadini, artigiani, pastori) che hanno già combattuto contro i musulmani e si muovono sotto la spinta della miseria e dell’ardore religioso. Sono guidati da pochi gentiluomini, che partecipano all’impresa con propri beni (caravelle, capitali, armi, cavalli). In pratica, si tratta di una spedizione privata, che è condotta con l’intento di trarre un profitto economico e con lo spirito di crociata, che mira cioè a fare bottino e a convertire al cristianesimo delle popolazioni primitive e senza Dio. In termini tecnici, si potrebbe parlare di impresa commerciale in accomandita semplice e animata da spirito religioso. Alla fine, questi uomini annientano l’impero atzeco di Montezuma e diventano padroni del Messico. Qualche anno dopo è la volta di Pizarro (1532), che rovescia l’impero inca in Perù (1532).
I conquistadores rimangono legati alla loro terra d’origine, ossia la Spagna, il cui re si mostra molto interessato all’esito dell’impresa, nella quale intravede enormi per la corona, e così si giunge al seguente compromesso: il re concede ai conquistadores un esteso territorio (encomienda), che essi possono sfrutta a proprio vantaggio, organizzare, proteggere e cristianizzare, ma che rimane di proprietà della corona. Di fronte alla tendenza dei conquistadores di fare dell’encomienda un proprio regno ereditario, i sovrani spagnoli tentano di reagire (leggi di Carlo V, 1542-3), ma senza molto successo. Alla fine, la corona di Spagna e i conquistadores si dividono i frutti della conquista, sfruttano le miniere locali e impongono un lavoro servile agli “indiani”, i quali però mostrano una scarsa resistenza alla fatica, e molti di essi si ammalano e muoiono. Per risolvere il problema, i re cattolici Ferdinando e Isabella accettano l’idea di importare schiavi dall’Africa (1501). Intanto, dalla Spagna arrivano nuovi coloni, che si insediano nei territori ancora liberi. Alla fine, l’America spagnola risulta disseminata di piccoli regni al comando di un sovrano spagnolo, il quale sfrutta le risorse del territorio avvalendosi del lavoro di schiavi negri e “indiani”.
Nello stesso periodo, francesi e inglesi esplorano l’America del nord nel tentativo di trovare un passaggio per raggiungere via mare l’Estremo Oriente. Non riescono nel loro intento, ma in compenso stabiliscono rapporti con le popolazioni indigene, avendo, come obiettivo principale, i francesi il commercio delle pellicce, gli inglesi la colonizzazione. In ogni caso, la colonizzazione è opera di compagnie di commercio e di associazioni di proprietari, che sono mossi da uno spirito capitalistico allo scopo di realizzare un profitto economico. Anche in questo caso, si tratta per lo più di poveri diavoli, anche se non mancano figli cadetti di famiglie aristocratiche e piccoli nobili di campagna in cerca di fortuna e di gloria.
I primi coloni francesi si insediano in Acadia e nel Quebec, rispettivamente nel 1604 e nel 1608, e, qualche anno dopo, espandendosi verso la regione dei Grandi Laghi, cominciano a scontrarsi con gli “indiani” del luogo, gli irochesi. È subito chiaro che si tratta di una lotta impari, fra gruppi assai diversi per organizzazione e armamenti. I bianchi hanno grandi navi, spade di ferro e fucili, contro cui nulla possono le frecce di selce e i tomahawk degli indiani, i quali subiscono l’attrattiva della superiore civiltà dei francesi e chiedono le loro armi, così come i loro tessuti e le loro bevande inebrianti, in cambio di pellicce. La conseguenza è che, se prima gli indiani uccidevano i bisonti in base alle loro necessità alimentari, adesso si vedono costretti ad abbatterne un numero sempre maggiore. La caccia indiscriminata al bisonte per questioni commerciali, contribuisce a modificare i tradizionali costumi degli indiani, che, mentre seguono le mandrie, talvolta sconfinano nel territorio altrui e innescano conflitti intestini, che finiscono per indebolirli. Intanto i francesi, nel perseguire i loro interessi commerciali, a volte stringono accordi con le tribù indiane, altre volte si scontrano con le stesse, e, a poco a poco, verso la metà del XVIII secolo, si trovano infiltrati in quasi tutta l’America del nord, anche se sono relativamente poco numerosi e trascurati dalla madre patria.
La colonizzazione inglese inizia nel 1607 in Virginia e prosegue, quasi senza sosta, lungo la costa atlantica. Chi sono questi colonizzatori? Sono membri di minoranze politiche e religiose, che fuggono dalla patria per sottrarsi a persecuzioni o a situazioni giudicate intollerabili, animati dal desiderio di libertà, indipendenza e democrazia. Alcuni di questi sono membri di congregazioni religiose dissidenti perseguitati dall’episcopato anglicano, altri, pur essendo membri effettivi della Chiesa d’Inghilterra, ne criticano alcune posizioni. Nel novembre 1620 la nave Mayflower, carica di un centinaio di uomini, che verranno chiamati Padri Pellegrini, approda nella costa del Nord America, presso capo Cod. Sono in gran parte cristiani dissidenti che, per sfuggire alla persecuzioni, hanno trovato rifugio in Olanda. Prima di sbarcare, una quarantina di loro firmano un contratto, il Mayflower Compact, con cui s’impegnano a costituire una comunità egalitaria fondata sui principi del cristianesimo primitivo. Poi, dopo un’opportuna ricognizione della zona, scelgono la sede d’insediamento e vi costruiscono un villaggio di nome Plymouth.
Nel 1628 una grande ondata di migranti puritani raggiunge la baia di Boston e vi si insedia. I puritani sono membri della chiesa d’Inghilterra, di cui contestano le tendenze cattolicheggianti di questa e reclamano la «sola scrittura» a norma della vita cristiana. Pellegrini e puritani sono accomunati dall’essere impregnati di spirito evangelico e dalla volontà di costituire una comunità cristiana modello. Essi desiderano la pace, ma accettano la guerra quando ritengono che essa sia necessaria e ascrivibile ai disegni di Dio. La vittoria sui nemici e la prosperità economiche sono considerate segni tangibili della benedizione divina (SPINI 1968: 5-26).
Lo Stato inglese li lascia fare e accorda loro la facoltà di organizzarsi a piacimento. La prima Costituzione viene redatta in Virginia nel 1609. Le colonie del Sud sviluppano un’economia esclusivamente agricola: nelle grandi piantagioni, che richiedono una mano d’opera numerosa, a partire dal 1620, cominciano a confluire schiavi importati dall’Africa e si consolida una società aristocratica di proprietari terrieri. Inizialmente le colonie sono del tutto scollegate fra loro ma, a lungo andare, la lotta contro nemici comuni, indiani e francesi, finirà per creare un sentimento di affinità e di identità di destino.
Inizialmente, i rapporti con gli indiani sono pacifici e molti di questi si lasciano plasmare dalla cultura dei nuovi arrivati e si convertono alla loro religione. A parte qualche isolato episodio, come la barbara strage degli indiani Pequot (1637), questo stato di pace è solo turbato dallo scontro tra francesi e inglesi, nel quale rimangono coinvolte le tribù indiane, le quali cercano di allearsi ora con questi ora con quelli, allo scopo di trarre qualche vantaggio per sé. In cambio del loro appoggio e delle loro pellicce, chiedono armi, con le quali combattono le tribù confinanti, le quali, a loro volta, fuggono e spingono più in là le tribù vicine, e così via indefinitamente. Il XVII secolo è caratterizzato da un susseguirsi di conflitti armati tra francesi e inglesi per la conquista del territorio, con gli indiani a fare da spalla agli uni o agli altri. Alla fine i francesi vengono battuti e il Canada passa sotto l’Inghilterra (1763). Due anni dopo si apre un conflitto armato contro gli indiani del cosiddetto re Filippo (1675-6), che segna l’inizio di una lunga stagione di guerre. Intanto, il rigidismo religioso dei primi coloni si va stemperando fino ad assumere i contorni di un protestantesimo liberale.
Circa un secolo dopo l’insediamento dei primi coloni europei, le tribù indiane appaiono decimate. A rendere più elevate le loro perdite contribuisce la diffusione di epidemie, come vaiolo, tifo, tubercolosi, varicella, tifo e pertosse, che sono state portate in America dagli europei e, nei confronti delle quali, gli indiani non hanno alcuna difesa immunitaria. Molti indiani sono tenuti nei fortini dei bianchi come schiavi. Per tacitare le proprie coscienze e giustificare le loro azioni, i bianchi elaborano teorie, secondo le quali gli indiani sono dei selvaggi, rozzi, crudeli e sanguinari, privi di morale e di religione. Se alcune tribù si piegano di fronte alla superiorità dei bianchi e si europeizzano, altre rimangono fieramente legate alle proprie tradizioni e non depongono le armi.
Nel 1754 le colonie inglesi, che ammontano a tredici, sono ancora troppo fiere della propria indipendenza per accettare la proposta di Benjamin Franklin di unirsi in confederazione. La situazione cambia nel 1763 quando, per estinguere i debiti della guerra dei Sette anni, lo Stato inglese pretende di imporre alle colonie delle tasse, senza nemmeno consultarle. Ai coloni sembra ingiusto di essere fatti oggetto di dovere senza essere soggetti di diritto, e così si rifiutano di pagare, a meno che non siano rappresentati in Parlamento, e, poiché il governo inglese respinge questa richiesta e continua a gravarli di pesanti dazi e a penalizzarli con leggi di parte, le colonie si alleano per combattere contro la madrepatria e per la propria indipendenza (1774).
Le ostilità iniziano l’anno seguente, essendo George Washington (1732-99), un facoltoso proprietario terriero, l’”uomo più ricco d’America” (ZINN 2007: 62), al comando dell’esercito americano. Nonostante l’euforia del momento, le prospettive degli insorti non sono rosee e il loro evidente stato d’inferiorità si traduce in molte diserzioni e in una scarsa affluenza di volontari. Al contrario, le truppe inglesi sono meglio organizzate e possono contare su un valido contingente di mercenari tedeschi, provenienti dall’Assia. A favore degli americani si schierano però i nemici europei dell’Inghilterra, Francia, Spagna e Paesi Bassi, che cercano di approfittare della situazione. Ciò nonostante, le cose si mettono male per le Colonie che, più volte sconfitte, hanno il morale a pezzi e vedono progressivamente assottigliarsi le fila del proprio esercito. Buon per loro che Washington non è tipo da scoraggiarsi facilmente e, con le poche forze a sua disposizione, riesce a cogliere, contro le truppe mercenarie degli assiani, un insperato successo (Trenton, 1776), di per sé modesto, ma tale da suscitare nuovo entusiasmo nella popolazione coloniale e rendere possibile la Dichiarazione d’indipendenza (1776).

11.2. La Dichiarazione d’indipendenza
Ispirandosi al pensiero di Locke e Montesquieu, Thomas Jefferson, l’estensore materiale della Dichiarazione, considera il singolo individuo il miglior giudice del modo di perseguire la propria felicità e afferma che tutti gli uomini nascono uguali ed hanno diritto alla libertà. Quello che ne risulta, infine, è un sistema liberale, non egualitario, dove a tutti viene riconosciuto il diritto di fare la scalata sociale e di costruirsi da sé, e ai ricchi viene concesso di conservare i propri privilegi (BRAUDEL 1966). Se nei due secoli precedenti l’America ha attirato membri di tutti i popoli, di tutti i ceti sociali e di ogni cultura, adesso consacra il ceto possidente a classe dominante (HUBERMAN 1977). Infatti, già alla chiamata di leva, si nota la prima evidente disparità di trattamento: chi ha la possibilità di pagare per farsi sostituire, cioè i poveri, devono arruolarsi (ZINN 2007: 57).

L’ulteriore affermazione militare degli americani sugli inglesi a Saratoga (1777), da un lato determina il rafforzamento dell’esercito, attraverso un incremento del flusso di volontari, dall’altro induce la Francia a riconoscere gli Stati Uniti e a firmare con essi un trattato di mutua difesa, seguita poco dopo da Spagna e Paesi Bassi. L’ennesima vittoria di Washington a Yorktown (1781) si rivela decisiva, dal momento che induce gli inglesi ad eleggere un nuovo governo, che avvia trattative di pace e firma il Trattato di Parigi (1783), riconoscendo l’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
Adesso gli americani avvertono l’esigenza di un governo centrale forte, ma non vogliono rinunciare all’indipendenza dei singoli Stati. Come fare? Si comincia a lavorare attorno ad un progetto di Costituzione (che vedrà la luce nel 1787), i cui maggiori ispiratori sono Bentham, James Mill e Madison, sostenitori, specie quest’ultimo, di una democrazia rappresentativa in uno Stato federale, dove la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso i suoi rappresentanti, i governanti, iscritti a partito, vengono eletti dal popolo con voto segreto, i poteri dello Stato sono divisi in esecutivo, legislativo e giudiziario, la costituzione contiene le norme valide del tutti a garanzia del rispetto delle libertà e dell’uguaglianza di fronte alla legge, lo Stato minimo interferisce il meno possibile nella vita privata dei cittadini, le donne e i poveri sono esclusi dalla pienezza dei diritti politici, per es. il voto, che sono riservati ai maschi possidenti.
La democrazia rappresentativa, unita al principio federale, rende possibile conciliare istituti e condizioni, che nel passato erano sembrati poco compatibili, come un principe elettivo (il Presidente della repubblica o il Capo di governo), un insieme di Stati-nazione di grandi dimensioni (l’equivalente di un Impero), la proprietà privata dei mezzi di produzione (capitalismo borghese), un’economia di mercato fondata sulla libera concorrenza (liberismo), una condizione minoritaria delle donne (maschilismo) e dei lavoratori salariati (società duale).
La Costituzione stabilisce che ogni Stato ha diritto ad una propria amministrazione e una propria milizia, mentre al governo centrale spetta il controllo della politica estera e dell’esercito. In accordo col pensiero di Montesquieu, i tre poteri del governo federale vengono divisi: quello esecutivo è affidato al Presidente, che è eletto direttamente dal popolo; il potere legislativo compete al Congresso, che è formato da un Senato e da una Camera di deputati eletti nei vari Stati; il potere giudiziario viene riservato ai giudici, anch’essi eletti in ogni Stato, ed alla Corte Suprema federale, che ha il compito di far rispettare la Costituzione. Per evitare il predominio dei grandi Stati sui piccoli, la rappresentanza proporzionale viene limitata alla Camera, mentre si stabilisce che ogni Stato, indipendentemente dalla grandezza, sia rappresentato al Senato da due membri. Nel 1788 la Costituzione viene ratificata e Washington è eletto primo presidente degli USA (1789-97). Nasce così la Repubblica federale degli Stati Uniti d’America.

11.3. Federalist e Democrazia
Che cos’è il Federalist? Quando è stato pubblicato? Nessuno degli autori de Il Federalist è veramente democratico. Hamilton, il principale autore, è un monarchico conservatore, che vuole un governo fondato sul dominio dei possidenti (REINHARD, 2000: 176). Se fino a Montesquieu si è ritenuto che la DD sia adatta solo alle piccole comunità, Madison, il secondo autore de Il Federalist, considera questa forma di governo molto pericolosa, in ogni caso, e ritiene che la migliore forma di governo sia la DR. Dopo Madison, la rappresentanza diventerà il simbolo stesso della modernità e, già pochi anni dopo, l’abate Sieyès (1748-1836) potrà dichiarare che “tutto è rappresentanza” nello Stato moderno e che la DD è roba degli antichi.

Sotto la presidenza di Washington si costituiscono due schieramenti politici: i federalisti, guidati da Alexander Hamilton, che rappresentano gli interessi degli industriali e dei grandi commercianti, prevalenti a Nord, e mirano al rafforzamento del potere centrale; i democratici, guidati da Thomas Jefferson che, ispirandosi ai principi di Rousseau e dell’illuminismo, stanno dalla parte dei piccoli proprietari, prevalenti a Sud, e sostengono la più ampia autonomia dei singoli Stati nei confronti dello Stato federale. Prevale il partito di Jefferson (1801-09), che inaugura un periodo di pace interna.
Intanto prosegue la colonizzazione dell’Ovest (West), che è ancora occupato da circa mezzo milione di indiani. Prevalendo lo spirito di indipendenza, solo raramente le diverse tribù appaiono disposte a coalizzarsi tra loro contro il nemico comune e, quando lo fanno, non si dimostrano sufficientemente determinati e ben organizzati, subendo dure sconfitte, come a Prophetstown (1811). Mentre la popolazione “indiana” cala, quella bianca cresce e, in circa 30 anni, va oltre al raddoppio: da 4 milioni nel 1789, si passa a 9.600.000 nel 1821. Vengono fondati nuovi Stati. Da quel momento ha inizio un consistente flusso immigratorio che, in 40 anni, introduce in America circa 4 milioni di europei, in prevalenza irlandesi, tedeschi, inglesi e francesi.

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