sabato 12 settembre 2009

02.4. Il pensiero politico nel XVI secolo

In campo politico, le teorie formulate nel XVI secolo seguono le linee culturali dell’epoca e, come il cristianesimo, si frammentano, in parte ricalcando e ribadendo le posizioni medievali favorevoli alla monarchia assoluta, di diritto divino, in parte seguendo le tendenze individualistiche della modernità.
Tra i maggiori rappresentanti della tradizione va ricordato Jean Bodin (1530-1596), secondo il quale il re è il rappresentante di Dio sulla terra e l’unico uomo a non dipendere da altri. Egli è tenuto a rispettare la legge di Dio (in ciò si distingue dal despota), che coincide con la legge naturale e con i fondamenti della religione, e deve rispondere solo a Dio. Il popolo non può far altro che sperare che Dio mandi re buoni e punisca quelli malvagi. Quella di Bodin rimarrà la dottrina prevalente in Europa fino alla Rivoluzione francese, allorché comincerà a diffondersi l’idea che il potere viene dal popolo.
A differenza di Bodin, che, in perfetta sintonia col pensiero ebraico-cristiano-medievale, ha dell’uomo una concezione sostanzialmente negativa, Etienne de la Boétie (1530-1563) si avvicina alle posizioni umanistiche, dichiarandosi disposto ad accordare credito all’uomo, seppur con qualche riserva. Egli afferma che l’uomo per sua stessa natura sarebbe libero e, se si lascia opprimere dalla forza del tiranno, è solo per debolezza, rinuncia e pigrizia. Afferma inoltre che il potere politico appartiene al popolo e che questo potrebbe riprenderselo solo che lo voglia: “la libertà è un fatto di volontà”. Di fatto, però, anche per Boétie, il potere deve essere esercitato dal re, il quale ha il dovere di governare in funzione e nell’interesse del popolo. Le differenze tra il pensiero di Bodin e quello di Boétie sono comunque una questione di sfumature: nella sostanza, entrambi vedono la monarchia come la migliore forma di governo e sperano in un re virtuoso e saggio, che si prenda cura del suo popolo come un buon padre di famiglia fa con i suoi figli.
Se Bodin e Boétie rimangono in linea col passato, lo stesso non si può dire per Niccolò Machiavelli (1469-1527), il quale, pur essendo di fede repubblicana e ritenendo quindi che, almeno in linea di principio, possa essere definito ideale quello Stato in cui le leggi sono più forti degli uomini e in cui i cittadini sono liberi perché sono sottomessi solo alle leggi, in realtà è disposto a tollerare il potere assoluto del principe, che ritiene funzionale al bene supremo dello Stato. Ed è proprio nel tentativo di suggerire al principe il miglior modo di fare politica, che Machiavelli elabora un pensiero, che rompe con la tradizione classico-medievale-umanistica del buon principe e apre un nuovo corso, fondato sulla separazione della politica dalla morale e sulla netta prevalenza degli interessi dello Stato su quelli dei singoli sudditi. Secondo Machiavelli, il comportamento morale deve rimanere confinato alla sfera privata e non si addice alle scelte politiche del principe, che devono invece obbedire alle imprescindibili esigenze dello Stato.
Poiché scopo primario del Principe è quello di conservare e, possibilmente, accrescere la potenza dello Stato, ne consegue che, in ordine a quel fine, egli debba poter ricorrere ad ogni mezzo, anche «illecito», “perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono...” (Principe, XV). Ciò che è deprecabile nella condotta individuale può essere, dunque, encomiabile se a farlo è un capo di Stato. In altri termini, se dal privato cittadino ci aspettiamo che la sua condotta sia improntata da un codice etico condiviso, il principe dovrà dare priorità assoluta alla “ragion di Stato” e potrà fare ricorso ad ogni mezzo pur di salvaguardare gli interessi dello Stato: per il primo vale l’etica dei princìpi, per il secondo quella dei risultati. Certo, il «machiavellismo», che ormai è diventato sinonimo di «ragion di Stato», presta il fianco a qualche perplessità: se i mezzi sono giustificati dal fine, chi giustifica il fine? “Forse che il fine a sua volta non deve essere giustificato?” (BOBBIO 1999: 145)
L’affermazione che i mezzi sono giustificati dal fine costituisce, in pratica, un atto di fiducia nell’uomo. E, in effetti, Machiavelli ritiene che l’uomo sia responsabile delle sue azioni, nel bene e nel male, avvicinandosi in ciò al pensiero umanista. A differenza dei contemporanei, che sono fatalisti, che vedono cioè nel Destino una forza onnipotente, che tutto guida e travolge nel suo inesorabile corso, per il Fiorentino l’uomo conserva almeno una parte significativa nella costruzione del proprio destino: “iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi” (Principe, XXV). La forza dei Romani, per esempio, non si basava soltanto sulla buona sorte, ma anche sul loro valore e sulla loro organizzazione militare e politica (Discorso, I 4,3). Per Machiavelli è virtuoso quell’uomo che piega la fortuna alla propria volontà.

02.4.1. La monarchia assoluta
Questa forma di governo trova la sua più piena affermazione in Francia, già a partire dal XV secolo. “Il potere assoluto del re di Francia è riconosciuto di diritto. La sua sovranità deriva da Dio e solo davanti a Dio egli è responsabile. Il re possiede tutte le autorità: dichiarare la guerra e concludere la pace, imporre tasse ai propri sudditi a suo piacere, emanare leggi poiché egli è la legge vivente, amministrare la giustizia poiché egli è il giudice supremo e non è consentito appellarsi contro le sue decisioni […]. I vescovi e gli abati sono considerati sudditi del re e devono difenderlo. Il re è il capo temporale della Chiesa, è lui che sanziona le leggi ecclesiastiche, è il solo che può convocare e autorizzare i concili, spetta a lui salvaguardare i beni della Chiesa” (MOUSNIER 1953: 93-4).
Secondo Mousnier, la principale causa della monarchia assoluta è la guerra, la quale ha l’effetto di compattare attorno alla figura del re sia il popolo, che si sente minacciato da un nemico esterno, sia i grandi commercianti e banchieri, che condizionano a proprio favore la politica del re e temono per i propri affari. La guerra suscita e rafforza il sentimento nazionale di tutte le classi sociali, che finiscono per unirsi sotto la figura di un monarca, al quale affidano le loro aspirazioni e il loro destino.

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