domenica 13 settembre 2009

04.5. Avanti tutta verso il capitalismo

In questo periodo si assiste al declino del vecchio colonialismo portoghese e spagnolo, che deve soccombere alla concorrenza di altri paesi, come Olanda, Inghilterra e Francia. Cambiano i metodi, ma rimane la sostanza, che è quella di uno sfruttamento intenso e spietato delle risorse materiali e umane, secondo la suprema logica del profitto capitalistico. Da questo momento, il denaro non è più un semplice mezzo di scambio, ma un bene in sé. Nello stesso tempo, viene esasperato il concetto giuridico di proprietà privata esclusiva, che si concretizza nella recinzione di quelli che prima erano latifondi con possibilità di uso comune.
Dal punto di vista economico, rispetto al secolo precedente, il fenomeno più importante del Settecento è certamente l’affermazione della manifattura e dell’industria, anche se la bottega artigiana rimane ancora predominante, così come rimangono operative le vecchie corporazioni medievali, che tendono al monopolio e si oppongono al libero mercato. Con l’affermarsi dell’industrializzazione, nascono nuove classi sociali, come quelle degli operai salariati e degli imprenditori o capitalisti, e la società diventa più complessa.
Il commercio è ormai decisamente spostato verso le colonie americane, i cui prodotti risultano più convenienti, anche a causa della manodopera a buon mercato resa possibile dalla tratta dei negri, la quale, a sua volta, costituisce anch’essa una florida attività commerciale. La diffusione delle prime macchine agricole determina un incremento della produzione agricola e del surplus. Tutto ciò contribuisce a cambiare la mentalità della gente, che adesso non vede più nella terra una semplice fonte di cibo, necessario per sfamare le famiglie dei proprietari e dei contadini, ma un mezzo atto a perseguire un profitto. La mentalità capitalistica inizia così a penetrare anche nelle campagne, consentendo il passaggio dall’agricoltura di sussistenza all’agricoltura industriale.

04.5.1. La borghesia
Col termine borghesia ci si riferisce ad un particolare ceto sociale, che, affacciatosi in Europa agli inizi del secondo millennio d.C., ha finito per caratterizzare la società moderna e contemporanea. Inizialmente i borghesi erano coloro che vivevano in città (nel borgo), in contrapposizione ai nobili, che vivevano nelle campagne. È a partire dalla Rivoluzione francese che si comincia a ritenere che non solo la nascita o il sangue, bensì anche i meriti fanno i «migliori»; anche i meriti stanno alla base delle carriere e delle ricchezze. Ciò che distingue i borghesi nei confronti della classe contadina è il fatto di essere impegnati in attività commerciali e finanziarie. Ecco perché ha senso parlare di B. solo in società di mercato e in relazione al denaro. Col passare del tempo, i ricchi cominciano prima ad affiancarsi ai nobili, poi a soppiantarli. Nel mondo anglosassone il termine B., manca e al suo posto si usa parlare di middle class, termine che indica meglio la realtà di oggi, che è tutta orientata al denaro (CAFAGNA 1991: 558-9).

04.5.2. La povertà
Nel periodo storico i poveri ci sono sempre stati, tuttavia, la povertà, come problema sociale, è un fatto recente, che è iniziato nel XVII secolo ed ha raggiunto il culmine con la rivoluzione industriale ed il capitalismo moderno. Più in particolare, il fenomeno esplode in tutta la sua drammaticità allorquando nell’Inghilterra elisabettiana si decide di recintare le proprietà private escludendone così l’accesso a tanta povera gente, che nel passato viveva proprio sfruttando una serie di diritti consuetudinari sulla proprietà altrui. Da quel momento una massa di indigenti, vagabondi e accattoni si riversa nelle città, rendendo ben visibile il fenomeno della povertà. Ma il problema non è solo inglese: è di tutti i paesi dove si va affermando il capitalismo.
Nell’ancien régime la povertà era innanzitutto una condizione umana, che affondava le sue radici in un ineluttabile “ordine” naturale e divino e richiedeva solo un atteggiamento caritatevole, il cui scopo era di alleviare il fenomeno, non di risolverlo. E siccome il fenomeno non era bello da guardare, nel XVI secolo, lo Stato aveva ritenuto di recludere gli emarginati nel grigiore di apposite istituzioni, lontano dalla vista della gente per bene.
Nel corso del XVIII secolo, si comincia a pensare che il problema della povertà non possa essere affidato alla semplice carità, ma che debba essere compito dello Stato di garantire a tutti il diritto alla sussistenza (cfr. Montesquieu, Lo spirito delle leggi XXIII, 29).
Nella pratica questo principio non viene applicato in modo incondizionato, ma solo e parzialmente nei confronti dei cosiddetti “poveri vergognosi”, di quei poveri cioè che provano vergogna per la loro condizione, che sono disposti a lavorare, che accettano le leggi vigenti e i valori comuni, che rispettano la gerarchia sociale e sono pronti a fare il possibile per non dare nell’occhio e per vivere con dignità e discrezione la loro vita di cittadini sfortunati. Diverso è l’atteggiamento nei confronti dei vagabondi abituali e di coloro che vivono contestando l’ordine sociale costituito e disprezzando lo status quo. Al pari dei delinquenti, per costoro è prevista la prigione, a meno che non si risolvano a lavorare. “I poveri – scrive Turgot A.R.J. nel 1770 – si dividono in due categorie, che devono essere soccorse in modo diverso. Ce ne sono che l’età, il sesso, le malattie non mettono in condizione di guadagnarsi da vivere da soli; altri che possono lavorare. Soltanto i primi devono ricevere dei soccorsi gratuiti; gli altri hanno bisogno di salari, e la carità più opportuna e più utile consiste nel dar loro il modo di guadagnarseli” (tratto da PROCACCI 1998: 44-5).
Le prime misure adottate da un governo a favore degli strati più poveri della popolazione risalgono ai tempi della Rivoluzione francese, allorquando si comincia a pensare che siano necessarie leggi di tutela della gente più povera, che prevedano non solo sussidi per i più bisognosi, ma anche e soprattutto il diritto al lavoro. Nello stesso tempo comincia a farsi strada l’idea che l’ignoranza sia “largamente responsabile della cattiva condotta dei poveri” (PROCACCI 1998: 198) e si comincia ad intravedere l’opportunità di una istruzione gratuita e obbligatoria per tutti: la Dichiarazione dei diritti del 1793 sancisce questi princìpi negli art. 21 e 22, indicando, come preciso scopo dello Stato, quello di fare di ciascun membro della collettività un cittadino virtuoso e responsabile. Continua a rimanere, tuttavia, opinione diffusa che la povertà costituisca un fenomeno sociale ineliminabile: “La povertà ¬–scrivono Tuetey A. e Bloch C. ai tempi della Rivoluzione– è una malattia inerente ad ogni grande società: una buona costituzione, un’amministrazione saggia possono diminuirne l’intensità, ma sfortunatamente niente può distruggerla radicalmente” (tratto da PROCACCI 1998: 64).
A partire da Sieyès (1791), si comincia a fare una distinzione tra cittadini attivi e passivi, come dire cittadini di serie A e B, cittadini proprietari e poveri, riproponendo, in tal modo, il classico modello della società duale, disegualitaria. “Il concetto di cittadinanza rivela così un doppio volto, che gli conferisce una natura intrinsecamente ambigua: esprime da una parte l’eguaglianza che trionfa contro i privilegi, dall’altra le distinzioni della nuova società. Tutti sono cittadini uguali, ma non tutti lo sono ugualmente” (PROCACCI 1998: 70). In teoria, l’essere cittadino implica il diritto all’autodeterminazione e alla partecipazione diretta alla politica, in pratica, invece, si constata che, in una grande nazione, com’è la Francia, è impossibile governare senza ricorrere alla “delega” (PROCACCI 1998: 73). La sovranità del popolo finisce allora col ridursi al diritto di eleggere i propri rappresentanti, che, di norma, appartengono al ceto abbiente e governano in nome del popolo e nel proprio interesse.
Non solo la miseria rimane, ma continua ad avere la stessa valenza negativa di sempre e il cittadino povero viene considerato un “uomo inutile” (PROCACCI 1998: 87). Questa ambiguità si riflette nel contrasto tra l’attività legislativa a favore dei poveri e l’opinione prevalente fra gli studiosi, che contestano l’effettiva utilità di queste leggi. Così, le leggi sui poveri emanate nel corso del XVIII sec. non sono si rivelano costose e inefficaci, ma sono fatte oggetto di critica da ogni parte, soprattutto perché, si dice, aiutare il povero equivale a riconoscere statuto legale alla povertà, a cristallizzare e istituzionalizzare lo stato di miseria.

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