domenica 13 settembre 2009

09. I francesi

Fallito il tentativo degli inglesi di estendere la propria egemonia in Europa da parte degli inglesi, ora ci provano i francesi con Carlo VIII (1483-98), il quale, col pretesto di avere diritto alla corona di Napoli, in quanto erede degli angioini, dà inizio ad un’azione militare in Italia (1494), che ha lo scopo di conquistare la penisola. Carlo VIII fallisce nell’impresa, che però viene ritentata dal suo successore Luigi XII (1498-1515), il quale cerca preventivamente l’avallo di Venezia, del papa e della Spagna. Alla fine, la Francia riesce ad annettere solo il ducato di Milano, mentre il Meridione va alla Spagna.
Temendo l’eccessivo potere di Carlo V, la Francia impugna le armi contro gli Asburgo, essendo sostenuta dagli Stati italiani, anch’essi seriamente preoccupati dal crescente potere imperiale. Alla fine Carlo V riesce a sottrarre ai francesi Milano (che assegna agli Sforza, propri vassalli) e ad assumere il pieno controllo dell’Italia, ma non riesce a scalfire l’integrità territoriale della Francia, che, dopo l’abdicazione di Carlo V, riprende a cullare sogni egemonici in Europa, ma viene sconfitta dalla Spagna (1557) e deve rinunciare ad ogni pretesa in Italia. Prostrata dalla lunga guerra contro l’Impero, la Francia deve adesso attraversare un periodo critico, che è segnato da guerre di religione. Esso si conclude con l’ascesa al trono del cattolico Enrico IV di Borbone (1589-1610), che avvia una politica orientata al risanamento economico, alla riorganizzazione dello Stato e al rafforzamento dell’autorità regia, politica che verrà proseguita dai suoi successori, Luigi XIII (1610-43), Luigi XIV (1643-1715) e Luigi XV (1715-74), sotto i quali, e in particolare sotto Luigi XIV, si instaura una monarchia assoluta e si attua una politica espansionistica, alimentata dal mercantilismo e dal nazionalismo francese.
Luigi XIV vede nella guerra uno strumento della sua grandezza personale oltre che un piacevole passatempo, e, per l’intera durata del suo regno, vi si impegna incessantemente non tanto per assicurare la pace ai suoi sudditi, quanto per accrescere il proprio territorio. Contro la politica imperialistica della Francia si coalizzano Austria, Inghilterra, Olanda, Piemonte, Portogallo e il principe del Brandeburgo, Federico I Hohenzollern, che ottiene in cambio il titolo di re di Prussia (1701). Ne origina una guerra (1702) che si conclude con il trattato di Utrecht tra Inghilterra e Olanda (1713) e quello di Rastadt tra Francia e Austria (1714). La vera vincitrice del conflitto è l’Inghilterra: la Francia perde Milano e Napoli e la Sardegna, a favore dell’Austria.
Sotto Luigi XV (1715-74) e Luigi XVI (1774-92) la Francia conosce una fase di relativa pace e di ripresa economica, cui s’associa un’espansione demografica e un’ascesa della borghesia, oltre ad una crescita culturale ed una ricca produzione letteraria, che la pone ai vertici in Europa e nel mondo. I philosophes, con le loro idee sui diritti naturali, sulla separazione dei poteri politici e sui valori democratici, fanno scuola e trovano calda accoglienza all’interno di una classe borghese, che è desiderosa di emulare la nobiltà, anche se i nobili la guardano con disprezzo. In fondo nella scala sociale c’è la massa dei contadini e dei salariati, che è relativamente inerte e priva di una propria organizzazione unitaria e di un proprio progetto politico.

09.1. La società francese nel XVIII secolo
La società francese appare nettamente divisa in due gruppi: una sparuta minoranza di privilegiati (i nobili e gli alti prelati), e una larga maggioranza di esclusi (la borghesia e le masse popolari). In realtà vengono riconosciute tre classi sociali o stati, ma ciò non modifica la sostanza delle cose, che è quella di una società duale. Il primo stato è formato dai nobili, grandi proprietari terrieri, che non lavorano, non pagano tasse e vivono nel lusso (circa l’1,5% della popolazione). Il secondo stato (circa lo 0,5% della popolazione) è formato dall’alto clero (vescovi, cardinali, abati), che vivono allo stesso modo dei nobili, godendo degli stessi privilegi. Il terzo stato comprende il restante 98% della popolazione (borghesi, artigiani, operai e contadini), i quali lavorano, pagano le tasse e mantengono il paese, ma versano in misere condizioni.

09.2. La Rivoluzione
Fino al 1789 l’istituto monarchico raramente è messo in discussione e sono in pochi a parlare di uguaglianza e di democrazia (FORREST 1999: 23), e nemmeno di popolo. Quando parla della nazione, Montesquieu si riferisce essenzialmente al clero e alla nobiltà: il terzo ordine, il popolo, non conta. Tale è il quadro politico in Francia alla vigilia della Rivoluzione, ma è destinato a cambiare in breve tempo. Le enormi spese sostenute dal re Luigi XVI per favorire la lotta delle Colonie americane contro il nemico inglese indeboliscono le finanze della sua nazione e, insieme alla filosofia della libertà abbracciata da molti soldati francesi in America, concorrono a determinare le condizioni favorevoli ad un’esplosione rivoluzionaria. Anche di fronte alla crisi finanziaria del paese e alla richiesta, da parte di alcuni economisti dell’epoca, di imporre il pagamento delle tasse anche ai nobili e agli ecclesiastici, questi si oppongono con fermezza. È la scintilla della Rivoluzione.
Così, nel giugno 1789, il terzo stato, il basso clero e un certo numero di nobili di spirito liberale, volendo porre fine all’ancien régime e dare alla Francia una costituzione liberale, si riuniscono in Assemblea nazionale costituente, con due importanti conseguenze: la prima è la rinuncia dei nobili ai loro privilegi (4 agosto), che segna la fine del regime feudale; la seconda è l’approvazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto). Fondata sui principî dell’illuminismo, quest’ultima andrà a far parte della Costituzione francese, il primo organico esempio di tradurre il diritto naturale in diritto positivo. Inoltre, vengono confiscati i beni del clero (novembre), soppressi i diritti feudali e i titoli nobiliari, ripristinato l’antico istituto dell’elezione dei vescovi da parte del popolo (1790), fatto divieto ai lavoratori di formare associazioni professionali e di scioperare (1791), il che tradisce l’orientamento borghese dei rivoluzionari.

09.2.1. Una rivoluzione borghese
“Chi si trova ai due estremi della scala sociale non vuole o non può cambiare. Chi, in alto, sta bene, dai cambiamenti non può ricevere che danno. L’indigente è immobile per la sua impotenza. Vuol cambiare chi sta nel mezzo. E ha la forza di cambiare. Come la borghesia” (SEVERINO 1997: 148). I poveri sono abituati a non avere niente, non sperano, non lottano, non partecipano, non rivendicano. Per loro le prospettive sono sempre nere. Solo chi ha qualcosa partecipa alla politica e lotta per i propri interessi, e lo fa con un impegno e con dei mezzi generalmente proporzionati al reddito. In pratica, la politica è un affare dei possidenti, e solo i più facoltosi possono raggiungere i vertici del potere.
Di norma, le rivoluzioni vengono fatte dalle classi sociali intermedie e quella francese non fa eccezione: i suoi principali limiti sono la partigianeria a favore della borghesia e la diffidenza nei confronti delle masse popolari. Infatti, i valori fondanti del pensiero illuminista, come la libertà e l’uguaglianza, l’individualismo e la proprietà, la tolleranza e il contratto, corrispondono alla voglia della borghesia di realizzare condizioni di laissez-faire (GOLDMANN 1967) e presentano contraddizioni e limiti propri della nuova classe dominante (GEYMONAT 1971). I rivoluzionari vogliono sostituire la “vecchia” società, che è basata sul ceto e sui diritti legati alla nascita, con una “nuova” società, che è basata sui meriti individuali e sul denaro. C’è un tale rigetto dei diritti di nascita da indurre il Direttorio a privare tutti i nobili della cittadinanza francese (1897).
In teoria, la nuova gerarchia sociale dovrebbe scaturire da un’uguaglianza di opportunità e da una libera competizione fra gli individui. Ciò è quanto sostengono i rivoluzionari più puri, come Gracco Babeuf (1760-97), il quale non esita ad indicare nella proprietà privata individuale “la fonte principale di tutti i mali che gravano sulla società” (Buonarroti 1971: 56). Nel nuovo ordine sociale preconizzato da Babeuf “la proprietà di tutti i beni esistenti sul territorio nazionale è unica e appartiene inalienabilmente al popolo, che solo ha il diritto di assegnare l’uso e usufrutto” (Buonarroti 1971: 148).
In pratica però l’uguaglianza di opportunità viene negata nel momento in cui si eleva la proprietà privata, senza limiti, a diritto fondamentale, essendo ovvio che il ricco possidente avrà molte più opportunità rispetto a chi non possiede nulla. Ora, è proprio questa la questione: le terre che i rivoluzionari hanno requisito ai nobili ed agli ecclesiastici, non vengono redistribuite ai contadini, secondo le loro capacità lavorative, ma rivendute per sostenere uno sforzo bellico, che è difensivo e offensivo ad un tempo, così che le disuguaglianze sociali rimangono, anche dopo l’abbattimento del ceto aristocratico.
Sulla libertà, invece, i rivoluzionari si battono con accanimento e determinazione. Ogni cittadino dev’essere lasciato libero di perseguire il proprio disegno di vita e lo Stato deve intralciarlo il meno possibile: è il principio cardine del liberalismo politico e del liberismo economico, che è concepito come “l’antitesi dei privilegi corporativi e dei monopoli regi che avevano caratterizzato il Settecento” (FORREST 1999: 83). Ma se, come abbiamo visto, la libertà d’iniziativa non s’accompagna ad una parità delle condizioni di partenza, i privilegi persistono e la società rimane disuguale e ingiusta.

09.2.2. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino segna la fine del cosiddetto ancien régime e l’inizio di una nuova civiltà, che è fondata sui seguenti principî:
• I cittadini sono uguali e liberi (individualismo).
• Essi hanno il diritto di scegliersi la classe governante (democrazia rappresentativa) attraverso il voto (partiti politici).
• Ogni cittadino è libero di organizzare la propria vita come meglio crede (liberismo): tramontano le vecchie corporazioni di tipo medievale, rigide e chiuse.
• La giustizia dev’essere uguale per tutti (uguaglianza dinanzi alla legge): cessano i tribunali riservati ai ceti alti.
• I cittadini sono liberi di esprimere le proprie opinioni (libertà di parola e di stampa).
• Se lo Stato è di tutti e se tutti devono difenderlo, non è più necessario ricorrere alle truppe mercenarie, ma devono essere gli stessi cittadini a formare l’esercito (esercito nazionale, leva obbligatoria).
• La terra dev’essere tolta ai grandi proprietari e data a chi la lavora (primato del lavoro).
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino viene condannata da Pio VI (1791). Qualche anno dopo, Pio VII criticherà anche la libertà di parola e di stampa (Diu satis, 1800). Ma il processo rivoluzionario non si arresta: qualche anno dopo, le donne ottengono il diritto di comprare, vendere ed ereditare, mentre a ragazzi e ragazze viene riconosciuto il diritto all’istruzione scolastica statale (1794), anche se la società rimane sostanzialmente maschilista.

Una nuova Assemblea istituitasi nel 1792, la cosiddetta Convenzione, dichiara abolita la monarchia e proclama la Repubblica. Non passa molto che il re viene condotto al patibolo e giustiziato (21 gennaio 1793). In pochi anni, il quadro politico è completamente rovesciato. Adesso il terzo stato conta. Nel suo opuscolo dal titolo Che cos’è il terzo stato?, l’abate di Sieyès (1748-1836) afferma che, dal momento che è il popolo a mantenere in vita la nazione col proprio lavoro, il terzo stato è tutto.
Una delle figure di primo piano in questo periodo è Robespierre (1758-94), un oscuro avvocato di provincia, grande estimatore di Rousseau e della cultura illuminista. Eletto deputato nel 1783, nel 1790 diviene presidente dei giacobini e si dedica alla causa della rivoluzione. Il suo stile di vita semplice, umile e ascetico gli vale la fama di «incorruttibile». Crede fermamente nella democrazia e il suo programma prevede il suffragio universale, l’istruzione gratuita e obbligatoria, un’imposta progressiva sui redditi, l’istituzione di posti di lavoro pubblici e un aiuto ai disoccupati. Nel tentativo di tenere unito il paese, che è minacciato dal sollevamento della Vandea ed è in preda alla disorganizzazione sociale e alla crisi economica, Robespierre instaura un clima di terrore, ma gli avversari in parlamento gli si rivoltano contro e riescono a portarlo al patibolo (28 luglio 1794).
Intanto, la Costituzione del 1795 istituisce il Direttorio, ovvero la massima autorità politica del paese, mentre il paese è in stato confusionale: i prezzi sono in continuo rialzo, l’inflazione cresce e la miseria del popolo stride con la smaccata ricchezza dei parvenu. È in questo contesto che fa la comparsa sulla scena politica il pensiero socialista, che trova espressione nel Manifesto degli Eguali e nella Congiura degli Eguali, che si propone di rovesciare il Direttorio, ripristinare la Costituzione del 1793 e fondare la Repubblica degli Eguali, dove “la terra non è di nessuno” (Buonarroti 1791: 312).

09.2.3. L’ascesa di Napoleone
I sovrani d’Europa sono preoccupati per l’andamento degli eventi: temono che il desiderio di libertà e indipendenza esploso in Francia possa estendersi nei loro paesi e mettere in pericolo il loro trono. Vogliono perciò spegnere il fuoco rivoluzionario e restaurare la monarchia francese e, poiché possono contare sia su maggiori risorse sia sul consenso pressoché unanime dei loro popoli, l’impresa a cui si accingono si prospetta come poco più di una semplice passeggiata. Luigi XVI conta su questo aiuto, ma i rivoluzionari lo costringono a dichiarare guerra all’Austria (20.4.1792). La Prussia si schiera a fianco dell’imperatore, e le ostilità hanno inizio.
Alle truppe di Guglielmo II di Prussia e Leopoldo II d’Austria, formate da soldati di professione, i francesi rispondono con una partecipazione massiccia di volontari che, seppur privi di un’adeguata preparazione tecnica e fidando principalmente sull’entusiasmo, sanno tirar fuori coraggio e determinazione tali da indurre il nemico alla ritirata (Valmy, 20.9.1792). La Francia è salva e può proclamare la Prima Repubblica. Non solo: essa si sente così forte e galvanizzata da intraprendere anche una politica d’espansione e, in quattro settimane, il generale Dumouriez conquista il Belgio (6.11.1792). I soldati francesi approfittano della situazione e, come voraci sciacalli, fanno razzia di tutto ciò che possono. Russia e Prussia non sono da meno e, col pretesto di evitare che il disordine rivoluzionario si estenda alla Polonia, come bestie fameliche, si spartiscono quel paese. L’Inghilterra non corre alcun rischio dal punto di vista militare, tuttavia è inquieta perché si sente minacciata nei suoi interessi commerciali e teme l’infiltrazione dei princìpi giacobini. Alla notizia che Luigi XVI è stato decapitato, a Londra la folla chiede di prendere le armi contro la Francia, ma è quest’ultima a dichiarare guerra all’Inghilterra, insieme all’Olanda (1.2.1793), e poco dopo anche alla Spagna (7.3.1793).
Perché la Francia dichiara guerra? Innanzitutto per motivi strategici: essa è certa che verrà attaccata dalle monarchie europee e ritiene che, muovendosi per prima, ha maggiori possibilità di successo. Ma anche per motivi ideologici: è solo con la forza che i francesi potranno consolidare le conquiste democratiche nel proprio paese ed esportarle agli altri popoli. Il conflitto che si apre a livello europeo non è dunque solo uno scontro fra eserciti, ma è anche uno scontro fra i principî monarchici tradizionali, che sono più diffusi, e quelli liberali rivoluzionari, che sono emergenti.
Inizialmente la Francia deve subire, ma sa reagire e, grazie anche alla leva di massa introdotto da Napoleone (agosto 1793), a partire dall’autunno 1793, gli eventi volgono a suo favore. Il servizio di leva di massa viene a modificare profondamente la forza militare del paese. In precedenza ogni Stato disponeva di un proprio esercito permanente, che era costituito da soldati di professione, anche stranieri. Nel caso della Francia, prima di questa riforma l’esercito contava circa 150 mila uomini, mentre dopo la riforma il numero dei soldati aumenta fino 800 mila, ed erano tutti cittadini francesi, né volontari né professionisti. Nate dall’amalgama fra soldati di professione e militari di leva, le armate dei generali francesi realizzano per la prima volta il principio della nazione in armi (CRISCUOLO 1997: 98).
I generali francesi si muovono in modo sempre più aggressivo e disinvolto e assumono un potere crescente, mentre, in patria, i rivoluzionari aprono un periodo di Terrore, con l’intento di eliminare tutti i nemici della Rivoluzione: a migliaia cadono le teste sotto la lama della ghigliottina. Il Direttorio, istituito dalla Costituzione del 1795, non sa fare di meglio che fomentare lo stato di guerra, in cui vede uno strumento atto a tenere alto il morale della gente e a distoglierne l’attenzione dagli insuccessi interni. Questa Francia fa paura ai monarchi europei: non solo perché agita idee liberali, ma anche perché può contare su una numerosa popolazione, entro cui recluta i propri soldati. È una nazione in armi, un immenso esercito di cittadini. All’estero i francesi sono malvisti, e non solo a causa delle loro idee, ma anche per come si comportano, sia in patria, dove attuano la politica del Terrore, sia sulle aree di guerra, dove offrono il vile spettacolo dei saccheggi a danno dei paesi conquistati. Infine, i francesi sono malvisti delle contraddizioni insite nella loro politica espansionistica che, di fatto, nega ai popoli sottomessi i diritti democratici che i rivoluzionari rivendicano per i cittadini francesi.
Il 1796 segna l’inizio dell’epopea napoleonica. Nato ad Ajaccio da una famiglia della piccola aristocrazia corsa, Napoleone Bonaparte (1769-1821) rappresenta il modello di chi riesce a farsi strada nella società e ad emergere, in virtù delle proprie capacità, della fortuna e della forza delle armi. Dal momento che il suo status è legato alla forza, ben si comprende perché egli cura molto l’esercito e si preoccupa di tenere alto il morale dei soldati, ai quali promette brillanti carriere e facili arricchimenti. Nel 1796, quando, appena ventisettenne, riceve il comando dell’Armata d’Italia, che versa in condizioni pietose, subito si adopera per elevare lo stato e il morale delle sue truppe, con discorsi del tipo: “Soldati, voi siete nudi e mal nutriti, ma io vi condurrò nelle pianure più fertili del mondo. Le grandi città e le ricche province cadranno in vostro potere: là troverete onore, gloria e ricchezze”.
Galvanizzato dai primi successi e grazie all’autonomia che gli deriva dai frutti dei suoi saccheggi, quel piccolo esercito regala a Napoleone sensazionali vittorie e gli dischiude la via della gloria: in meno di un anno l’Austria è battuta e l’Italia settentrionale passa sotto il controllo della Francia. Approfittando del proprio successo e dell’impopolarità del Direttorio, il generale Bonaparte riesce ad impadronirsi del potere con un colpo di Stato (10.10.1799), che pone fine alla Rivoluzione e instaura una dittatura militare, che si rivelerà ben più autoritaria della precedente monarchia.

09.2.3.1. La coscrizione di massa
A partire dal 1799 viene istituita la coscrizione annuale regolare, che, per il momento, non è ancora del tutto obbligatoria, essendo concessa al coscritto la facoltà di pagare un sostituto. Essa mette a disposizione della nazione un numero impressionante di soldati, mai visto, né immaginabile nel passato, e cambia il modo di concepire e di condurre la guerra. Se prima la guerra era uno scontro fra signori, sostenuto da opposti interessi di famiglie e combattuta da truppe mercenarie, adesso la guerra si avvia a divenire, almeno in apparenza, uno scontro fra popoli e culture.
In realtà, dietro popoli e culture si possono facilmente scorgere gli interessi delle classi dominanti. Se così non fosse, non si spiegherebbe il fatto che, almeno in tempi di guerra, la coscrizione dev’essere sostenuta da misure coercitive, che di solito sono molto severe, e che, ciò nonostante, rimane elevato il numero di coloro che tentano di sottrarvisi. Il problema della renitenza e della diserzione esiste anche al tempo di Napoleone, quando, pur di non partire sotto le armi, molti ricorrono ad ogni mezzo: finte malattie, automutilazioni, matrimoni, e via dicendo.

Spinto dalla propria ambizione e badando sempre al proprio personale interesse, Napoleone si muove dove lo porta la convenienza, talvolta inclinando verso il vecchio, che è rappresentato dalla tradizione autoritaria dell’ancien régime, talaltra inclinando verso il nuovo, che si incarna nei principî dell’illuminismo e delle idee liberali. Quello che ne viene fuori è un personaggio dall’aspetto bifronte, che, da un lato concede costituzioni e stimola lo spirito nazionale, suscitando il desiderio delle libertà civili proclamate dalla Rivoluzione, dall’altro si comporta come un tiranno, che calpesta i diritti dei popoli, impone gravosi tributi e tutto piega davanti ai supremi interessi della Francia e della propria famiglia. Il “vecchio” Napoleone limita la libertà di stampa, pone il divieto di criticare il governo, persegue gli avversari politici, favorisce la formazione di una classe di intellettuali asservita al potere (1800), firma anche un concordato con la Santa Sede (16.7.1801), che stabilisce condizioni vantaggiose per sé, mentre riduce i sacerdoti al rango di pubblici funzionari stipendiati dal governo. Il “nuovo” Napoleone introduce per la prima volta la scuola dell’obbligo, che è certamente ispirata ai principî illuministi, anche se, in fondo, è anch’essa funzionale al potere.
Se c’è una questione, di fondamentale importanza, che Napoleone non può trascurare, questa è la legittimazione del suo status, ossia la trasformare in diritto del potere che ha conquistato con la forza. Si preparano dunque le procedure per l’incoronazione ad imperatore e, dopo che un referendum popolare ha stabilito che quella carica dev’essere ereditaria, il 2.12.1804 il rito viene celebrato nella cattedrale di Notre-Dame da parte del papa Pio VII (1800-23): a differenza di Carlomagno, Napoleone afferra la corona con le proprie mani e se la pone sul capo da se stesso, come per dire che il potere gli deriva direttamente da Dio, se non dalla sola sua forza. Ecco come nasce una dinastia. Nell’assumere il titolo a governare per volere divino, Napoleone è abilitato a conferire blasoni. Il risultato è il rinnovamento della classe aristocratica, che adesso accoglie nelle sue fila le persone più vicine all’imperatore, non solo gli ufficiali militari più devoti, ma anche e soprattutto i parenti, che sono elevati automaticamente al rango di principi. Questa legittimazione sopravvivrà alla definitiva sconfitta dell’imperatore (1815) e, infatti, il figlio di Napoleone conserverà il blasone e il figlio di un suo fratello potrà rivendicare il diritto di ricostituire l’impero e assumerà il nome di Napoleone III (1852).

09.2.3.2. I titoli nobiliari
Nelle società premoderne è normale la presenza di gruppi di famiglie che, “di generazione in generazione, mantengono posizioni di privilegio in termini di potere, di ricchezza e di status” (BOBBIO, MATTEUCCI, PASQUINO 2004: 624), ed è altrettanto normale che, all’interno di queste famiglie, si individuino dei soggetti, cui attribuire dei titoli e delle funzioni sociali gerarchicamente ordinati. Al vertice c’è un signore, il principe, il re, il faraone, o come lo si vuole chiamare, che esercita il potere sovrano insieme al diritto di trasmetterlo ereditariamente. In teoria, l’interesse di questo signore sarebbe quello di favorire matrimoni all’interno della propria famiglia, allo scopo di determinare la massima concentrazione di “sangue blu” e l’affermazione di un lignaggio con le caratteristiche di rango e di casta di livello superiori.
Tuttavia, l’esperienza insegna che non di rado da una coppia blasonata e potente nascono figli inetti, che rovinerebbero l’immagine del casato, mettendone in pericolo il prestigio, il potere e il patrimonio. Nell’intento di scongiurare una simile evenienza, il signore si riserva anche il diritto di adozione o di cooptazione, vale a dire la facoltà di prescegliere il proprio successore all’esterno della propria famiglia. Capita, infatti, che da una coppia di basso rango nascano figli dotati di spiccate qualità carismatiche e capaci di guidare un paese. L’adozione o la cooptazione di simili personaggi non è un evento frequente nel corso della storia (lo si riscontra ai tempi dell’impero romano), mentre sono più frequenti i casi di uomini nuovi, dagli oscuri natali, che, dopo essersi messi in luce con le proprie forze, hanno poi ricevuto dal sovrano di titoli nobiliari, che poi hanno trasmesso agli eredi.
“Per lo più è la ricchezza il fondamento originario della nobiltà di una famiglia” (BOBBIO, MATTEUCCI, PASQUINO 2004: 625), ma perché una ricchezza possa dare origine ad una nobiltà occorre che essa sia consistente e duratura. Una famiglia che riesca a conservare la propria ricchezza nel corso di diverse generazioni, di solito trova un artista, un cantore, un poeta che ne enfatizza i meriti e ne giustifica il ruolo sociale, spesso riconducendolo a immaginarie origini mitiche. Una volta assodato il superiore rango di una famiglia nei confronti di altre e affermato che esso origina agli inizi del tempo, ne consegue che chi nasce da quella famiglia viene automaticamente riconosciuto come portatore di singolari virtù e, dunque, meritevole di privilegi sociali, quali l’accesso preferenziale o esclusivo alle cariche pubbliche, il diritto all’alleggerimento del carico fiscale o ad essere giudicato in tribunali speciali. Questa logica si infrange ai tempi della Rivoluzione francese, quando si afferma il principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, da cui prenderanno origine le repubbliche democratiche, con le loro Costituzioni e coi loro Parlamenti rappresentativi del popolo.

La politica di Napoleone si attua in due fasi distinte: la prima fase consiste nel conquistare tutte le terre possibili del Nuovo Continente e affidarli a membri della propria famiglia; la seconda fase serve a stabilizzare le conquiste attraverso la realizzazione di un unico apparato amministrativo. Lo scopo ultimo dichiarato è la restaurazione dell’impero romano. Evidentemente, benché ormai sia anacronistica, quest’idea non è ancora morta. Nel perseguire questo obiettivo, Napoleone non si comporta come un sognatore romantico, che vuol fare rivivere un modello politico che non c’è più. Egli si comporta piuttosto come un cinico e opportunista, che mira a diventare padrone del mondo. Napoleone, infatti, tratta i paesi conquistati al pari di una proprietà privata e li gestisce come un affare di famiglia. Le popolazioni sottomesse vengono gravate di tributi e del dovere della coscrizione e defraudate dei loro diritti e dei loro beni, oltre che delle loro migliori opere artistiche. Ma, mentre compie questa disgustosa opera di spoliazione, Napoleone si adopera allo scopo di migliorare l’efficienza e la produttività dello Stato oltre che di uniformare le condizioni di vita dei suoi sudditi: introduce un sistema culturale e giuridico validi in tutto l’impero, modernizza l’agricoltura, costruisce strade, ponti e canali di irrigazione, istituisce scuole e uffici pubblici funzionali, riforma il metodo di riscossione delle tasse. Insomma, si comporta come abitualmente fa un imprenditore nei confronti del proprio patrimonio: cerca di farlo crescere.
Il Codice civile, che entra in vigore nel 1804, è stato elaborato all’interno della classe borghese, di cui salvaguarda gli interessi, e rappresenta il risultato di un compromesso tra le vecchie consuetudini regionali, il diritto romano e le nuove idee diffuse dall’illuminismo. Esso tutela la proprietà privata e la libertà del lavoro, afferma la laicità dello Stato e la libertà di fede, la libertà di coscienza e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nega il diritto di sciopero e di associazione. La famiglia è concepita in modo gerarchico e autoritario, sulla falsariga dell’impero: così come Napoleone è il capo dell’impero, allo stesso modo il marito è il capo della famiglia. Per contrarre matrimonio, i figli al di sotto di 25 anni devono avere il consenso scritto dei genitori, ma anche se hanno più di 25 anni sono tenuti a chiedere consiglio ai genitori, se non altro come atto di rispetto formale. In caso di adulterio al marito è riconosciuto il diritto di chiedere il divorzio, alla moglie no. Al di là della bontà dei contenuti, il Codice viene visto come un importante passo avanti rispetto al passato, È la prima volta, infatti, che la Francia e l’impero possono disporre di un corpo di leggi scritte in maniera chiara e valide per tutti i cittadini.
Nel maggio 1809 Napoleone estende il suo potere sullo Stato pontificio e decreta la fine del potere temporale dei papi. È un periodo tra i più critici per la chiesa, che deve subire la cultura laica e antireligiosa del repubblicanesimo e del giacobinismo francesi. In questo clima davvero pesante, i porporati, che possono, si trasferiscono a Venezia sotto la protezione dell’Austria. Pio VII risponde con la scomunica, ma invano: viene arrestato e deportato in Francia. È solo dopo la caduta di Napoleone che egli potrà fare ritorno a Roma e recuperare il suo regno.

09.2.3.3. Papi e imperatori
Nel corso della storia, i rapporti fra papi e imperatori sono dipesi dalla rispettiva forza. I papi hanno potuto alzare il tono della voce e il livello delle proprie rivendicazioni quando si sono trovati di fronte a imperatori deboli, mentre hanno dovuto assumere atteggiamenti dimessi e accontentarsi di ruoli secondari allorché hanno avuto di fronte un imperatore forte, com’è avvenuto ai tempi di Costantino, Carlomagno, Ottone I e Napoleone.

In questo periodo la Francia è ritenuta il paese più potente ed evoluto del mondo: la sua cultura fa scuola, la sua lingua è parlata negli ambienti colti di tutta Europa, i suoi ideali politici sono elevati a modello da imitare. Con la campagna di Russia (1812) inizia il declino di Napoleone che, porta a morire in quelle gelide terre mezzo milione di uomini, la maggior parte dei quali reclutati nei paesi sottomessi alla Francia. La sconfitta fa emergere la parte peggiore della personalità di Napoleone, il quale non solo non se ne addebita la responsabilità, ma nemmeno dimostra alcun sentimento di pietà e di pena per tutti quei cadaveri che si è lasciato dietro, mentre lui fuggiva a Parigi. Si dice che, dopo la disfatta di Lipsia (1813), Napoleone abbia esclamato: “Cosa importa a me se muoiono duecento o trecento mila uomini? Le madri ne faranno degli altri” (GEROSA 2005: 481). E in effetti, nonostante che la Francia abbia perduto, dal 1792, oltre un milione di suoi cittadini, Napoleone continua ad arruolare altri giovani figli e il suo esercito, nel 1813-4, conta un milione e duecentomila uomini, contro i 160 mila del 1789.
Sorprende il trattamento di assoluto favore che le potenze vincitrici riservano ad un imperatore sconfitto, responsabile della morte di milioni di persone e del tentativo di fare del Continente europeo una proprietà privata di famiglia. Ad un siffatto personaggio viene concesso di conservare a vita i titoli nobiliari, per sé e per i propri familiari, insieme al principato dell’isola d’Elba e ad una rendita annuale di due milioni di franchi (trattato di Fontainebleau, 11.4.1814)! Nel 1814, dopo la fuga dall’isola d’Elba e l’ennesima sconfitta a Waterloo, Napoleone è costretto ad abdicare e viene deportato nell’isola di Sant’Elena, dove morirà nel 1821. I suoi familiari continueranno a conservare i titoli nobiliari acquisiti.
Dopo la caduta di Napoleone il mondo non è più lo stesso: tramonta definitivamente l’idea di impero, che viene sostituita dagli Stati-nazione, e quella dell’assolutismo monarchico, che lascia il posto alle monarchie costituzionali. Lo stesso Luigi XVIII, che si insedia sul trono di Francia (1814), deve concedere al popolo una Costituzione liberale, che riconosce l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, il diritto di essere rappresentati in Parlamento, le libertà di culto, di opinione e di stampa, oltre al diritto di rappresentanza politica.

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