sabato 12 settembre 2009

04.3. Il pensiero politico nel Settecento

Nel secolo dei lumi, le scienze politiche e il diritto fanno importanti progressi grazie ai contributi di Charles de Montesquieu e Jean Jacques Rousseau. Nella sua opera più celebre, Lo spirito delle leggi, Montesquieu (1689-1755) sostiene: primo, che non esiste una forma di governo valida in ogni caso, ma che ogni popolo deve scegliere il governo che più gli si adatta; secondo, che si possono scorgere in uno Stato non due poteri, come pensava Locke, ma tre: il potere di fare leggi (potere legislativo), quello di prendere decisioni (potere esecutivo) e quello di amministrare la giustizia (potere giudiziario); terzo, che questi poteri – come aveva suggerito Locke – non vanno esercitati da un’unica persona o un unico gruppo, ma tenuti separati, allo scopo di evitare eccessi di autorità. Più precisamente, il potere legislativo “verrà affidato e al corpo dei nobili e al corpo che sarà scelto per rappresentare il popolo…” (XI, 6), ossia alle Camere parlamentari. “Il potere esecutivo dev’essere nelle mani d’un monarca perché questa parte del governo, che ha bisogno quasi sempre d’una azione istantanea, è amministrata meglio da uno che da parecchi…” (XI, 6). Il potere giudiziario dev’essere composto da due parti distinte: i tribunali ordinari, per le vertenze della gente comune, e apposite giurie di nobili, per le vertenze fra nobili (XI, 6).
Al pari di Locke, anche Montesquieu ritiene che il potere supremo spetti alle leggi, di fonte alla quali anche il re deve inchinarsi. Dietro la grande varietà di leggi particolari, il pensatore francese vede un insieme di principî comuni e fondamentali, che sono i principî della ragione, i quali costituiscono lo «spirito delle leggi» e il cui artefice è Dio. “La legge, in generale, è la ragione umana, in quanto governa tutti i popoli della terra, e le leggi politiche e civili di ogni nazione non devono costituire che i casi particolari ai quali si applica questa ragione umana” (I, 3). Il cittadino deve comportarsi secondo lo spirito delle leggi e non secondo i propri interessi: “la libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono” (XI, 3). Perciò Montesquieu, come Rousseau, è contrario al progresso economico fine a se stesso e alle attività commerciali indiscriminate. Convinto che il popolo non disponga delle capacità necessarie per assumersi rilevanti responsabilità politiche e benché avverso ad ogni forma di dispotismo, Montesquieu vede nella monarchia una buona forma di governo e si adopera allo scopo di restituire alla monarchia francese il suo carattere di governo moderato, che avrebbe smarrito sotto il regno di Luigi XIV. Riguardo alla democrazia, Montesquieu, in linea con gli antichi Greci, concepisce solo la forma diretta, che tuttavia ritiene essere una forma di governo adatta solo a piccole città e quindi da non prendere nemmeno in considerazione per un grande Stato. Nel complesso, il pensiero di Montesquieu non è distante da quello di Locke: entrambi sono dei liberali con tendenze aristocratiche e entrambi preferiscono la monarchia parlamentare.
Da parte sua, nel Contratto sociale, Rousseau (1712-78) non fa fatica ad accettare il principio giusnaturalista, secondo il quale gli uomini sono nati liberi e uguali, allo stesso modo in cui accetta l’idea del «contratto sociale», secondo la quale, in origine gli uomini stabilirono tra di loro un accordo, in virtù del quale trasferirono il proprio potere ai governanti. Ma, a differenza di Hobbes e Locke, che, seppure a diverso titolo, ritenevano che il contratto trasferisse l’autorità dal popolo ai governanti, Rousseau lascia la sovranità al popolo e vede nei governanti dei semplici delegati, in ogni momento revocabili. “La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione stessa che non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa, ovvero è un’altra; non c’è via di mezzo” (III, 15). I cittadini devono essere nello stesso tempo governati e governanti: “Il popolo, sottomesso alle leggi, deve esserne lui l’autore” (II, 6). A questo punto, il Ginevrino dovrebbe, coerentemente, sostenere la causa della democrazia diretta, e invece no: nemmeno lui crede che tale tipo di governo possa proficuamente operare in grandi società. E allora? Allora, attraverso un giro di parole, egli finisce per appellarsi ad un concetto, per la verità assai equivoco e nebuloso, che lo dovrebbe tirar fuori dai pasticci: la “volontà generale”, che non è da confondere con la volontà della maggioranza. Lo Stato –dice– è il frutto di tale volontà, che è espressa dalla legge, e va governato in accordo ad essa. I cittadini, dunque, anche se, in teoria, conservano la propria fetta di sovranità, in pratica sono chiamati a sottomettersi incondizionatamente alla legge e a quella fantomatica volontà generale, che non è chiaro che cosa sia. E non è nemmeno chiaro a chi spetti il potere di fare le leggi. Se non alla maggioranza dei cittadini, a chi? A questo interrogativo Rousseau, purtroppo, non dà risposta.
Rousseau considera la democrazia un regime perfetto e, in quanto tale, irrealizzabile: “Se vi fosse un popolo di dèi, esso si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non conviene ad uomini” (III, 4). Il governo ideale, secondo Rousseau, è la repubblica, e per tale egli intende “ogni governo guidato dalla volontà generale, che è la legge” (II, 6). Ma qual è la Repubblica del ginevrino? “Rousseau si dichiara favorevole ad un sistema politico all’interno del quale le funzioni legislativa ed esecutiva siano nettamente distinte, in cui la prima appartenga al popolo e la seconda ad un «governo» o ad un «principe». Il popolo forma l’assemblea legislativa e fonda l’autorità dello stato; il «governo» o il «principe» […] esegue le leggi del popolo” (HELD 1997: 87). I funzionari dell’esecutivo vengono nominati tramite elezione diretta o a sorte. La partecipazione diretta dei cittadini alle pubbliche assemblee sta alla base delle leggi. Di norma, una legge dev’essere votata all’unanimità e, solo come ripiego, vale la regola di maggioranza. Insomma, anche se è rappresentato, il popolo rimane sovrano: l’opera di chi governa non ha alcun valore se non è ratificata direttamente dal popolo, se non è in sintonia con la volontà generale.
È difficile descrivere con chiarezza il modello politico russoviano. Per certi versi, sembra trattarsi di una perfetta democrazia o, se preferiamo, di un individualismo pieno. Per il filosofo, infatti, tutti i cittadini devono godere della stessa libertà e nessuno deve essere tanto ricco da essere padrone di altri, né tanto povero da essere costretto a vendersi. La comunità politica democratica dev’essere piccola, sì che tutti i suoi membri si possano conoscere. La proprietà privata dev’essere diffusa all’intera popolazione, in modo tale che tutti possano partecipare alle decisioni di pubblico interesse. Le donne, invece, si dedichino ai lavori domestici, onde consentire agli uomini di occuparsi del lavoro retribuito e della politica. Le donne, dunque, sono escluse dalla cittadinanza e così pure, a quanto sembra, i poveri. In definitiva, la democrazia di Rousseau ha gli stessi limiti della democrazia ellenica.

04.3.1. Il contrattualismo
Anticipato da Platone (Leggi, 684a) e Cicerone (De repubblica III,13), e divenuto la dottrina politica prevalente tra Seicento e Settecento, il contrattualismo suppone che, partendo dalla condizione di libertà e uguaglianza, che caratterizzerebbe lo stato di natura, gli uomini hanno ritenuto vantaggioso costituirsi in società e lo hanno fatto attraverso un accordo fra di loro: il cosiddetto contratto sociale, dal quale poi originerebbe l’organizzazione politica dello Stato. In realtà, i contrattualisti non credono nella concretezza storica del contratto, ma si servono di questa finzione, nella convinzione che essa sia comunque adatta ad esprimere efficacemente il passaggio dallo Stato naturale allo Stato politico. Secondo i contrattualisti, hanno fatto bene gli uomini a stipulare quel contratto, perché lo Stato politico rappresenta il superamento dello stato di natura, a patto però che esso si basi sulle leggi naturali, che poi altro non sono che le stesse leggi della ragione e di Dio.
Questa concezione sarà rovesciata da Marx, secondo il quale lo Stato politico non rappresenta l’uscita dallo stato di natura, ma è solo “il mezzo con cui la classe economicamente dominante mantiene il proprio dominio” (ANDREATTA, BALDINI 1999: 195) attraverso il ricorso alla legge del più forte.
In realtà, le due posizioni sono perfettamente plausibili e compatibili. Il contrattualismo, infatti, riconosce due fasi. La prima fase corrisponde al momento della stipula del contratto. La fase in cui nessun individuo accetterebbe quel contratto se esso non gli garantisse qualche rilevante vantaggio rispetto allo stato di natura, il che prova che lo Stato nasce come una precisa esigenza dell’individuo di migliorare le proprie condizioni. Possiamo dire, dunque, che lo Stato è creato dall’individuo e, come un qualsiasi strumento, è al suo servizio.
Da questo quadro, che è quello descritto dai contrattualismi, si passa gradatamente ad una seconda fase, che si può identificare con quella descritta da Marx. Ciò avviene quando i capi designati approfittano della propria posizione per assicurarsi ricchezza e potere e trattare gli altri da subordinati, rendendo così loro non più vantaggioso l’essere membri di uno Stato civile. A questo punto, molti farebbero volentieri ritorno allo stato di natura se fossero liberi di farlo, ma i capi non possono permettere questa defezione in massa, perché ciò implicherebbe la fine dello Stato civile e dei loro privilegi. Essi allora cominciano ad appellarsi alla cosiddetta ragion di Stato, che descrive lo Stato come valore in sé, e si servono della forza militare per costringere ciascuno al proprio posto.

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