L’opinione più comune nel Seicento è che gli interessi di uno Stato possano essere perseguiti solo con la forza e che la grandezza di una nazione sia legata alla possibilità di finanziare una guerra e, dunque, alla ricchezza: la ricchezza genererebbe la forza, e con la forza si potrebbe acquistare nuova ricchezza, e così via, in un processo senza fine. Se uno Stato volesse essere grande dovrebbe, dunque, arricchirsi e, poiché la ricchezza proviene principalmente dal commercio, ecco che gli interessi dei governanti vengono a coincidere con quelli dei mercanti e si traducono in economia, affarismo e profitto. Da qui la politica mercantilista, che consiste in una serie di misure (dazi, agevolazioni fiscali, finanziamenti) adottate dallo Stato, allo scopo di sostenere le proprie industrie e favorire i monopoli nazionali, il cosiddetto protezionismo.
03.2.1. Il mercantilismo
Si chiama mercantilismo la teoria economica che si affermò in Francia ai tempi di Luigi XIV. “La teoria su cui si basava il mercantilismo era la seguente: poiché la quantità di denaro che circola in Europa è più o meno costante, un paese può arricchirsi solo sottraendo denaro ad altri paesi: di conseguenza è necessario vendere all’estero quanta più merce possibile e limitare le importazioni” (SCHULZE 1995: 71). In tal senso si adoperò lo Stato francese, che incoraggiò lo sviluppo delle manifatture e dell’artigianato per la lavorazione e la trasformazione delle materie prime, che venivano acquistate a basso costo e poi vendute a prezzi elevati. Lo stesso Stato partecipava attivamente, diventando esso stesso produttore e istituendo monopoli. “Intorno al 1700 era così che si presentava a tutti gli europei il modello di uno Stato efficiente” (SCHULZE 1995: 72).
Insomma, il M. considera lo Stato come se fosse un grande mercante, che cerca di spuntare le condizioni più favorevoli per sé, a spese degli altri. Ora, poiché nessuno può guadagnare se non grazie alla perdita di un altro e poiché nessuno è disposto a rimetterci in modo spontaneo, ecco allora che si rende necessario l’uso della forza. Ma chi può disporre di una forza tale da poter imporre ad altri la propria volontà? La risposta è banale: solo uno Stato popoloso può armare un grande esercito e imporsi. E tale è la Francia. La Francia può permettersi di attuare una politica che favorisce le esportazioni, scoraggia le importazioni e sfrutta le colonie, perché può schierare molti uomini sui campi di battaglia: con l’esercito ottiene ricchezze e con le ricchezze paga l’esercito. La forza genera denaro e il denaro genera la forza. È un sistema che si autoalimenta.
Se la Francia fosse il solo paese mercantilista al mondo, avrebbe forse partita facile nell’imporre la propria egemonia a livello planetario. Sfortunatamente per lei, ci sono altri paesi, specialmente Spagna, Olanda e Inghilterra, che, non solo non accettano l’idea di porgere le terga a chicchessia, ma ritengono di poter essi stessi perseguire la stessa politica di potenza della Francia e imporre un proprio primato sulla terra. Così, nel tentativo di controllare il grande commercio internazionale, tra Spagnoli, Olandesi e Inglesi si accende uno stato di competizione sempre più aspra, che si trasforma in lotta armata e richiede rilevanti investimenti economici. Per mantenere l’esercito, il re chiede l’appoggio finanziario dei ricchi, in cambio di concessioni, e ciò si traduce in una politica favorevole alle classi benestanti. Il sostegno economico dei ricchi, tuttavia, si rivela spesso insufficiente e, specie quando il conflitto si prolunga nel tempo, accade che perfino una guerra di conquista vittoriosa lasci un paese in una precaria situazione economica.
A causa delle esorbitanti spese militari, i re sono quasi sempre indebitati, e così pure i loro sudditi, in special modo le masse contadine, che, anche a causa di una serie di carestie e pestilenze, che in questo secolo sono particolarmente frequenti, vedono acuirsi il loro già cronico stato di miseria, rendendo particolarmente evidente il dualismo sociale: una ristretta minoranza di ricchi e una sterminata maggioranza di poveri. Il fenomeno non è certo nuovo ma, a differenza del medioevo, esso ora costituisce un autentico dramma. Se l’uomo medievale, infatti, considerava la povertà come parte dell’ordine eterno delle cose e indipendente dalla volontà umana, nel Seicento la stessa povertà viene vista come una condizione dipendente dall’uomo e diventa più difficile da accettare.
In campo politico, continuano a prevalere le ragioni dell’assolutismo, che sono sostenute da pensatori, come Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) e Sir Robert Filmer (1588-1653), i quali conservano, sostanzialmente, l’idea medievale di un potere che procede dall’alto verso il basso, ma anche, dal più famoso Thomas Hobbes (1588-1679) che, vivendo in un periodo di grande instabilità politica e sociale, vede nel “contratto” l’unica soluzione dei problemi di convivenza fra gli uomini: meglio cedere la libertà che vivere nel pericolo incombente e nell’insicurezza. Hobbes merita di essere ricordato come il pensatore che, per la prima volta nella storia, è riuscito a concepire un assolutismo a partenza dal basso.
L’argomentazione di Hobbes è celeberrima. Nello stato di natura –spiega il filosofo– gli uomini vivono in perenne conflitto tra loro con grave rischio per la propria vita. Stanchi di ciò, essi decidono di rinunciare alla libertà pur di conservare la vita e, a tale scopo, trasferiscono, attraverso un contratto, i loro diritti ad una sola persona, il re, che assume così i pieni poteri. Ecco come, a differenza dei teorici dell’assolutismo che l’hanno preceduto, Hobbes fonda l’autorità del sovrano non su Dio, ma sul popolo, il quale rinuncia alla propria libertà a vantaggio della sicurezza e a tutela della vita. “L’unico modo in cui gli uomini possono erigere un potere comune che sia in grado di difenderli dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci, e quindi di garantire una sicurezza tale che essi possano sostentarsi e viver bene grazie alla loro industria e ai frutti della terra, è quello di conferire tutto il loro potere e la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, che, a maggioranza di voti, possano ridurre tutte le loro volontà ad una volontà unica […]. Questo è più del consenso o della concordia: si tratta di una unità reale di tutti loro in una sola e identica persona, costituita mediante il patto di ogni individuo con ciascuno degli altri; come se ognuno di essi avesse detto all’altro: io autorizzo, e cedo il mio diritto di governarmi a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu ceda a lui il tuo diritto, e autorizzi allo stesso modo tutte le sue azioni. Ciò fatto, la moltitudine così unita in un’unica persona è detta Stato” (HOBBES 1998: II, 17). In virtù di quel contratto, il re riceve il potere assoluto direttamente dal popolo e acquista il diritto di esercitarlo come meglio crede, mentre il popolo rimane escluso dal potere. Hobbes non prevede nemmeno la necessità di una legge scritta. Per lui, infatti, la legge corrisponde alla volontà del re, che può cambiare in qualsiasi momento e senza preavviso, a seconda delle circostanze e senza dovere rendere conto ad alcuno, nemmeno a Dio.
In alternativa alle teorie sul potere assoluto, si vanno diffondendo, nel Seicento, altre interessanti concezioni politiche, come il giusnaturalismo (o diritto naturale), di cui è considerato fondatore Ugo Grozio (1583-1645), e il liberalismo, che ha in John Locke (1632-1704) il suo esponente di maggiore spicco.
Secondo il giusnaturalismo, gli uomini nascono uguali e, per loro stessa natura, sono portatori degli stessi diritti, che devono essere intesi non come derivazioni divine o concessioni da parte del sovrano, ma come diritti universali dell’uomo, che devono essere tutelati dalla legge, alla quale anche il re dev’essere sottoposto. A differenza di Aristotele, il quale aveva affermato che la certezza esiste solo in matematica (Eth. Nic., 1904b), i giusnaturalisti credono che anche la natura umana possa essere oggetto di conoscenza certa e avviano tutta una serie di studi “scientifici” al riguardo, finalizzati a codificare le leggi di natura.
Il liberalismo di Locke parte dalla posizione giusnaturalistica, secondo la quale tutti gli uomini nascono liberi e uguali, e dall’idea del “contratto” espressa da Hobbes. A differenza di Hobbes, Locke ritiene che il “contratto” non debba privare gli uomini della loro libertà originaria. Locke non è contrario alla monarchia in sé, ma considera un errore la concentrazione dei due principali poteri politici (quello legislativo, che è supremo, e quello esecutivo) nella persona del re. Al contrario, egli sostiene che detti poteri vadano separati e ipotizza una struttura del potere legislativo composto da due assemblee (o parlamenti): una di «nobiltà ereditaria» e l’altra «per rappresentanti scelti pro tempore dal popolo». Quest’ultima dev’essere elettiva e frutto di un suffragio censitario, a tutela di un riconosciuto diritto ai proprietari di esprimere il proprio assenso in materia di tassazione. Secondo Locke, il titolare del potere sovrano rimane il popolo, il quale conserva il diritto di detronizzare il re e scegliersene un altro. In definitiva, Locke sostiene una monarchia parlamentare, che trova riscontro concreto nella società inglese.
Un’altra rilevante novità, che si afferma in campo politico nel Seicento, è rappresentata dal governo monarchico federale che si danno le sette province d’Olanda, dopo che sono riuscite ad ottenere l’indipendenza dalla Spagna (1579). Ciascuna provincia ha un proprio governatore, ma tutte sono unite sotto un re, che viene eletto tra i governatori. Del federalismo ci occuperemo più avanti.
13. Presente e Futuro
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