domenica 13 settembre 2009

10. Gli italiani

Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) appare evidente che i piccoli stati in cui è suddivisa l’Italia non possono competere con le grandi monarchie di Spagna, Francia e Austria, che, come belve fameliche, si avventano sulla preda contendendosela. In un primo momento, ha la meglio la Spagna, la quale, sotto Carlo V (1516-56), assume il controllo del paese, ad eccezione della Savoia e di Venezia. La Spagna amministra in modo differente la Lombardia e il Meridione: essendo la prima un territorio di confine con l’Austria, le viene attribuita maggiore importanza e la si tratta meno duramente, mentre il Meridione viene visto solo come una terra da sfruttare. Qui gli Spagnoli sviluppano una mentalità aristocratica e altezzosa e favoriscono i grandi proprietari terrieri e i nobili (i cosiddetti “baroni”), a svantaggio della borghesia. Non molto diversa è la situazione nello Stato della Chiesa, all’interno del quale il papa dilapida grandi somme di denaro nella sua sfarzosa corte a Roma, mentre, tutt’intorno, le masse dei coloni coltivano i latifondi di proprietà delle nobili famiglie romane, vivendo in misere condizioni.
Col trattato di Utrecht (1713) l’egemonia spagnola viene temporaneamente sostituita da quella austriaca, mentre la Spagna non si dà per sconfitta e la Francia non ha ancora deposto le sue mire. Alla fine si giunge al trattato di Aquisgrana (1748), che dà agli Asburgo la Toscana e Milano, ai Borbone di Spagna il regno delle Due Sicilie, Parma, Piacenza e Guastalla, alla Francia Modena e Genova. Gli unici tre Stati indipendenti della penisola sono la Savoia, che è riuscita ad organizzare un efficiente esercito, rinforzato da soldati mercenari svizzeri, lo Stato pontificio, che attraversa un periodo di relativa tranquillità sotto il governo paternalistico dei papi, e Venezia, che è avviata in una lenta fase di declino. Questo assetto si manterrà fino all’epoca napoleonica.
Spaventati dalla Rivoluzione francese, i vari signori italiani tirano le redini e attuano una politica dura, affinché non si abbia a ripetere in Italia quanto è avvenuto in Francia. Così, quando, a partire dal 1792, gli eserciti della Rivoluzione dilagano nel Norditalia, trovano generalmente buona accoglienza da parte di una popolazione che, vedendosi coartata da una politica angusta e retrograda, accetta di buon grado di passare sotto il controllo di Napoleone, il quale lascia all’Austria solo il Veneto (pace di Campoformio, 18.10.1797). Poi è la volta di Roma (1798) e di Napoli (1799). Nel 1809, ad eccezione della Sardegna, dove si sono rifugiati i Savoia, e della Sicilia, che è sotto i Borbone, tutta l’Italia è nelle mani di Napoleone, che la divide in Repubbliche, dove, malgrado il comportamento rapace dei francesi, si risveglia in molti un desiderio di libertà.

10.1. Cesare Beccaria: un illuminista italiano
Cesare Beccaria (1738-94) non è un sovversivo o rivoluzionario e non è nemmeno un innovatore. Egli al contrario ossequia il sistema sociale (politico e religioso) del suo tempo e, almeno a parole, non ha alcuna intenzione di contestare nulla e nessuno. Ma è animato dai principi illuministici, e quando scrive Dei delitti e delle pene, il tono è apparentemente pacato e improntato al semplice buon senso di uno che aborre la violenza gratuita e vuole dire la sua, non certo di uno che ha coscienza di essere fortemente innovativo, né di dare alla stampa un’opera che sarebbe stata letta e citata per oltre due secoli.
Beccaria non solo contesta l’opportunità della pena di morte, definita “né utile né necessaria” (1994: 117), ma anticipa molti principî giuridici che diventeranno ovvi in seguito, come la presunta innocenza dell’imputato (1994: 92), l’opportunità che giudizi e accuse siano pubblici e non ci si avvalga dell’opera di delatori segreti (1994: 89-91), né della tortura, che costituisce un’inutile barbarie (1994: 91-8). Beccaria è per la mitezza delle pene, purché siano certe. “Uno dei più gran freni dei delitti –scrive– non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione” (1994: 114).

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