domenica 13 settembre 2009

18. La Palestina e gli ebrei

Nel 1517 la Palestina viene annessa all’impero ottomano. Con l’intento di incrementare la popolazione, che conta appena 250 mila abitanti, Solimano (1520-66) invita i profughi ebrei a farvi ritorno, ma il trattamento che ricevono, almeno dopo la morte di Solimano, non è dei migliori. Gli ebrei continuano a vivere raminghi nel mondo, generalmente isolati nelle società che li ospitano e spesso maltrattati.
Talvolta qualcuno si lascia sopraffare da idee balzane, com’è il caso di Joseph Nasi, un ebreo di Costantinopoli, che nel 1579 tenta di ricostruire la città di Tiberiade, offrendo così un saggio di movimento sionista. Intorno alla metà del XVI sec., gli ebrei di Polonia ottengono un’autonomia amministrativa, che dura circa un secolo, ma poi vengono massacrati dai russi.
Verso la fine del XVI secolo, preoccupato da altri problemi, l’impero ottomano trascura la Palestina, che entra in un lungo periodo di declino. Il vuoto politico, che si protrarrà per oltre due secoli, viene colmato da potentati locali.
Nei secoli XVII-XVIII, quasi tutti gli ebrei d’Europa vivono nei ghetti e non godono della parità di diritti rispetto agli altri cittadini. Tra essi si diffondono movimenti messianici, come quello di Sabbatai Zevi, che suscita un grande entusiasmo presso molti ebrei d’Europa, che si preparano a ritornare in Palestina.
La piena uguaglianza politica è accordata per la prima volta agli ebrei dagli Stati Uniti dopo la Dichiarazione d’indipendenza del 1776 e, successivamente, dall’Assemblea Costituente francese del 1791 e da Napoleone, ma, con la Restaurazione, in Europa tutto torna come prima. Nel 1800 la Palestina conta 330 mila abitanti, di cui 25 mila cristiani e 5 mila ebrei.

17. Australia e Oceania

Anche a causa del loro particolare isolamento geografico, le popolazioni indigene di Australia e Oceania possono sopravvivere indisturbate fino a tempi molto recenti, consentendoci di vedere con i nostri occhi culture che avremmo potuto desumere solo dai reperti archeologici. Mi riferisco soprattutto agli aborigeni australiani, che continuano a vivere fino ai nostri giorni ad un livello di civiltà che è quello dei cacciatori-raccoglitori e del paleolitico. Gli aborigeni non coltivano la terra e non hanno surplus, vivono in società di banda e di clan, i cui rapporti sono mantenuti distesi grazie alla pratica di matrimoni esogamici e a rituali e periodici scambi di doni, sono in grado di eseguire piccole costruzione in pietra, che richiedono la collaborazione di pochi uomini, e di produrre un’arte simbolica, portano ornamenti personali e seppelliscono i morti. Anche la popolazione della Nuova Guinea appare poco evoluta agli scopritori europei, ma, a differenza degli aborigeni, conosce l’agricoltura. La Nuova Zelanda, invece, è abitata dai maori, una popolazione di tipo tribale, che è caratterizzata da un’elevata bellicosità.

15. Gli indiani

Fino al XV sec., l’India rimane sostanzialmente divisa in numerosi regni. In questo periodo, l’evento più rimarchevole è la penetrazione musulmana, che, tuttavia, non riesce a soppiantare l’induismo. Nel 1556 Akbar, un discendente di Gengis Khan e del Tamerlano, fonda il cosiddetto impero del Gran Mogol, che ben presto cade vittima della politica coloniale della Gran Bretagna. La Compagnia inglese delle Indie orientali viene fondata nel 1600 e si occupa di questioni eminentemente commerciali. Per il momento l’Inghilterra non appare interessata a fondare un proprio impero in India, ma qualche tempo dopo (fine VIII secolo) cambia idea e inizia la conquista dell’India, la cui amministrazione viene lasciata a funzionari locali.

16. Gli ottomani

Agli inizi del XVI secolo gli ottomani sconfiggono i mamelucchi e conquistano la Siria, l’Egitto e il Maghreb. Poi assaltano l’Europa, ma vengono prima fermati a Vienna (1529) e poi definitivamente sconfitti nella battaglia navale di Lepanto (1571) dai veneziani, appoggiati dalla Spagna, dal papato e dai cavalieri di Malta. Deve passare circa un secolo prima che i turchi possono riprendere l’offensiva contro l’Austria (1664, 1682, 1715, 1787), ma vengono ripetutamente sconfitti. Il lungo conflitto fra Ottomani e Asburgo si conclude con la pace di Svicov (1791), con un nulla di fatto: né gli Ottomani sono riusciti a sottomettere l’Europa, né gli Asburgo hanno potuto conquistare i Balcani. L’impero ottomano esce dal conflitto indebolito, soprattutto nell’immagine e nella quotazione. Le cause di questa debolezza risiedono anche nella politica interna dell’impero, dove i sultani vivono nei loro palazzi dorati, completamente isolati dal popolo e liberi da responsabilità di potere, che gravano sui gran visir e sui generali, destinati all’eliminazione in caso di fallimento. La corruzione e l’indolenza regnano in tutti i livelli dell’amministrazione. I giannizzeri, che sono divenuti ormai una casta potente, hanno perso il valore di un tempo e pensano solo ad arricchirsi. Le truppe sono scarsemente supportare e spesso mancano anche dei generi di prima necessità. Il disordine regna in tutte le province e le più lontane sono abbandonate a sé e pressoché indipendenti.
Gli Stati europei cominciano a guardare all’Impero ottomano come una ghiotta occasione e pensano a come assicurarsi i benefici maggiori in vista di un suo probabile smembramento. Particolarmente interessata è la Russia, che è ansiosa di conquistarsi uno sbocco nel Mediterraneo e non perde occasione per attaccare l’Impero. I russi sconfiggono ripetutamente gli ottomani, ne distruggono la flotta (1770), conquistano la Crimea (1774) e si fanno riconoscere il diritto di libera navigazione nel Mar Nero e nel Mediterraneo, insieme al diritto di proteggere i cristiani ortodossi che vivono nell’Impero ottomano, il che significa poter intervenire negli affari turchi. Il giovane sultano Selim III (1789-1807) tenta una politica di riforme, ma viene deposto dai giannizzeri e assassinato qualche mese dopo: evidentemente, è troppo tardi per raddrizzare una situazione, che sembra irrimediabilmente compromessa.

14. I giapponesi

Nel XVI secolo, il Giappone è aperto agli scambi commerciali con gli europei e il missionario San Francesco Saverio vi può esportare il cristianesimo (1549). Agli inizi del XVII secolo lo shogunato diviene ereditario e si rafforza. Gli shogun esercitano un duro controllo tanto sui signori locali, quanto sull’imperatore, ridistribuiscono le terre a loro piacimento, mantenendone una gran parte sotto la loro diretta amministrazione, fanno propria la cultura cinese, attuano una politica xenofoba, che coinvolge anche i cristiani e finisce per isolare il Giappone dal resto del mondo. Nel XVIII secolo nasce la voglia di apertura e si sviluppa un movimento di rinnovamento e di recupero delle tradizioni nazionali, ma solo a livello elitario, mentre fra le masse continua a dominare il rigido conservatorismo degli shogun.

13. I cinesi

Nel XVI secolo, la Manciuria è una semplice provincia periferica della parte nordorientale della Cina, abitata da popolazioni arretrate, che vivono allo stato nomade e tribale e sono sottomesse alla superiore cultura cinese. Alla fine del XVI secolo, Nurhachi riesce ad unire sotto il proprio comando le tribù e crea un forte Stato manciù, tanto forte da abbattere la dinastia Ming e fondare una propria dinastia, che prende il nome di Ching (1644-1911). I Ching badano a non mescolarsi con le popolazioni assoggettate, che trattano come razze inferiori. Sotto di loro la Cina rimane culturalmente chiusa in se stessa, come se si compiacesse del suo passato, e non progredisce con la stessa velocità degli europei. Sul piano militare, invece, i mancesi prendono ad espandersi in direzione nrd-ovest, finché si scontrano con la Russia. Nello stesso tempo, devono guardarsi da Gran Bretagna e Francia che avanzano da sud-est, ma anche dal Giappone che si fa sempre più minaccioso.

12. I russi

Dopo la caduta di Costantinopoli (1453), Mosca è pronta a prenderne il posto e si candida come la Terza Roma. Già a partire dal gran principe Ivan III (1462-1505), i sovrani di Mosca assumono l’appellativo di Zar di tutte le Russie, ma è con Ivan IV il Terribile (1533-84) che il titolo è legittimare “per grazia divina” (DONNERT 1998: 75). Nel XVI secolo, la principale preoccupazione degli zar è quella di emanciparsi dal pesante condizionamento che devono subire da parte dei signori locali, i cosiddetti boiari, i quali esercitano un potere pressoché assoluto nei rispettivi territori. La politica di Ivan IV ha un duplice scopo: all’interno, quello di organizzare lo Stato in senso centralistico, creare un abbozzo di esercito regolare, sottomettere i boiari, che vengono fatti oggetto di una lotta feroce, sterminati e sostituiti da una classe nobiliare devota; all’esterno, lo scopo è quello di attuare una politica di espansione, che però viene frenata dalla sconfitta subita nella lunga guerra contro la Livonia (1558-83). Alla morte di Ivan, la Russia presenta un nuovo assetto, in cui spicca una piccola nobiltà, creata dal sangue e dalla violenza e schierata a favore dello zar, e una massa di contadini ridotti in schiavitù.
Nel 1598 il trono di Russia rimane vacante e si scatena un’aspra lotta per conquistarlo. I boiari approfittano del momento favorevole e si rifanno sotto, riuscendo a fare eleggere a zar uno di loro, Basilio Sjskij (1606-10), ma la loro eccessiva imposizione fiscale provoca diverse sollevazioni dei contadini e apre un nuovo periodo di disordini, di cui approfitta la Polonia, che occupa Mosca (1610-1). Adesso i pretendenti al trono di Mosca sono molti: non solo il re polacco Sigismondo III e alcune nobili famiglie locali, fra cui i Romanov, ma anche il re di Svezia Gustavo II, che propone il suo fratello minore Carlo Filippo, e il Kaiser di Germania, che propone il proprio fratello, l’arciduca Massimiliano. Tutti costoro aspirano al titolo di Zar, ma i Russi si dispongono a lottare per la propria indipendenza e, dopo aver cacciato lo straniero, alla fine riescono ad insediare sul trono Michele Romanov (1613), il fondatore dell’omonima dinastia, che avvia una fase di stabilità politica, da cui la Russia uscirà come la maggiore potenza dell’Europa orientale.
Attraverso una politica di concessioni territoriali a Svezia e Polonia, Michele III (1613-45) riesce a guadagnare la pace e lascia al figlio Alessio I (1645-76) un paese in condizioni modeste ma tranquille. Appoggiandosi ai ceti abbienti e ai commercianti ed emarginando la classe contadina (“servitù della gleba”), Alessio cerca di espandersi, ma è fermata dalla Svezia, e attua un programma di riforme interne, che, alla sua morte, rimane incompiuto. Spetterà al Pietro I (1682-1725) di portare a termine l’opera del padre e lo farà dopo un periodo interlocutorio, in cui si libera di avversari e viaggia in Occidente. Ritornato in patria (1698), impone alla sua gente usi e costumi all’occidentale, ma soprattutto si dota di una flotta e di un esercito organizzati alla maniera tedesca. Nel 1709 una sonora vittoria sulla Svezia offre alla Russia il controllo del Baltico e il ruolo di prima potenza del Nord (pace di Nystad, 1721). La politica di Pietro mira allo sviluppo dell’industria e del commercio, oltre che all’edificazione di un sistema sociale di tipo occidentale, che viene imposto dall’alto, anche se mancano le condizioni idonee a renderlo funzionante, e non ammette obiezioni, giungendo perfino a mettere a morte il figlio Alessio, colpevole di avversare le riforme.
Alla morte di Pietro e secondo la sua volontà, viene incoronata imperatrice la di lui moglie Caterina I (1725-27), che eredita una società ancora in gran parte di tipo feudale, costituita da una massa innumerevole di servi della gleba e da una ristretta élite di grandi proprietari terrieri, imprenditori e aristocratici. Le succede Pietro II (1727-30), figlio di Alessio, che è ancora bambino e morirà all’età di 15 anni di vaiolo. A questo punto, nel tentativo di indebolire il potere imperiale, l’élite aristocratica decide di elevare al trono una nipote di Pietro I, Anna Ivanovna (1730-40), che però, sorprendentemente, attua una politica forte e autocratica. Alla sua morte, la nobiltà russa ritorna sui suoi passi e mette sul trono una figlia di Pietro I, Elisabetta I (1741-61), sotto il cui regno la Russia continua a svolgere un ruolo di primo piano nella politica europea. Elisabetta sceglie come moglie dell’erede al trono, il granduca Pietro, una principessa tedesca, la quale, liberatasi del marito, diviene imperatrice col nome di Caterina II (1762-96). Come Pietro I, anche Caterina si disinteressa della sorte del popolo russo e s’impegna in una politica autocratica ed espansionistica, ma anche occidentalizzante, che conferma e rafforza la Russia nel ruolo di grande potenza.

11. Gli americani

In epoca storica, i primi contatti tra europei e nativi americani risalgono all’anno 1000, quando le navi vichinghe guidate da Leif Eriksson toccarono le coste del Labrador. I vichinghi furono cacciati via con la forza e non ritornarono più. Dovettero passare quasi 5 secoli prima che Colombo aprisse agli europei la via per quella che lui riteneva essere l’India, ma che in realtà era l’America.
Gli “Indiani” del nord vivono ad uno stadio più primitivo rispetto a quelli del Centro-Sud, in gruppi clanici e tribali, alcuni dei quali sono nomadi e si spostano, con le loro tende, al seguito delle mandrie, lungo le verdi distese delle praterie, altri sono stanziali, vivono in villaggi e praticano prevalentemente la caccia al bisonte, ma anche la pesca e l’agricoltura, lavorano la selce e l’osso, ed anche il rame, ma ignorano il ferro, sanno fabbricarsi archi e frecce, e anche il tomahawk, una grossa pietra solidamente legata ad un manico di legno. Non fondano città e non conoscono la scrittura. Non conoscono nemmeno la ruota e, per il trasporto, usano la canoa e il traino con cani. Ignorano i tessuti e usano le pelli animali, sia per vestirsi che per costruire le loro tende, o altro. Le donne si occupano dell’allevamento dei piccoli, delle attività agricole, della raccolta, della concia e della decorazione delle pelli e della preparazione del cibo, mentre gli uomini prediligono la caccia e vegliano sulla sicurezza del gruppo.
La religione è di tipo animistico: l’indiano crede che tutto ciò che esiste in natura sia animato da uno spirito, che vi siano spiriti buoni e spiriti malvagi, e che, al di sopra di tutti, troneggi il Grande Spirito. Ogni tribù o clan ritiene di discendere da un antenato mitico e riconosce un particolare legame con un animale, una pianta, un oggetto o un fenomeno naturale, che considera sacro, il cosiddetto totem. Anche gli uomini sono composti di spirito, che dà vita ai loro corpi. Dopo la morte, lo spirito si libera e comincia a vagare per il mondo, potendo ritornare fra gli uomini e condizionare le loro vite. Secondo gli indiani, questo complesso mondo di spiriti influenza il comportamento e la sorte degli uomini, nel bene e nel male. Cosa può fare l’uomo per propiziarsi i favori degli spiriti buoni e tenere lontani i malefici di quelli cattivi? La risposta degli indiani a questo interrogativo non è affatto originale e ripete, nella sostanza, il comportamento delle tribù preistoriche: essi ricorrono alle abilità di certi uomini straordinari, gli sciamani, che sono in grado di cogliere i segnali degli spiriti, di interpretarli e di volgerli a proprio favore.
Lo sciamano è il garante dei buoni rapporti tra gli spiriti e gli uomini e a lui ci si rivolge quando qualcosa di negativo viene a turbare lo stato di quiete della tribù, come un evento climatico avverso, una morte o una malattia. Se uno sta male, lo sciamano invoca gli spiriti maligni e intima loro di abbandonare quel corpo. Così facendo egli in realtà sta agendo sulla psiche del malato e sta sfruttando il potere della suggestione, che in molti casi porta alla guarigione. Se il malato muore, ciò viene interpretato come una punizione da parte degli spiriti, che sono stati offesi e che reclamano un qualche rito o sacrificio di espiazione e di riconciliazione.
A parte lo sciamano, gli indiani sono disposti a riconoscere una particolare importanza all’età e ritengono che la maggiore memoria degli anziani conferisca loro una maggiore saggezza e rispettabilità. Ciò non toglie che, all’interno della tribù, il rapporto fra le famiglie sia di tipo paritario. Di norma, ogni famiglia è guidata dal membro più anziano e provvede per sé. Le decisioni più importanti e di interesse generale vengono prese dal Consiglio degli anziani. Se una tribù si sente minacciata può eleggere un capo, in base all’età e alle sue qualità, e gli affida il compito di rappresentarli e di guidarli, ma senza conferirgli alcun potere stabile, né tanto meno trasmissibile ereditariamente. Talvolta, di fronte ad un pericolo particolarmente grave, due o più tribù possono stringere un’alleanza ed eleggere un capo comune. La guerra fra tribù è frequente, ma non ha scopi di conquista, servendo solo a fare razzia di beni e a stabilire una gerarchia di prestigio fra i vari capi tribù. All’arrivo di Cristoforo Colombo il Continente americano è popolato da 75 milioni di “indiani”, 25 al Nord, 50 al Sud (ZINN 2007: 21).

11.1. Colombo
Mentre queste popolazioni conducono ignare la loro vita semplice, in Europa si respira tutt’altra aria. Dopo che i turchi hanno conquistato Costantinopoli, vistesi sbarrare le vie commerciali con l’Oriente, l’Europa comincia a guardare ad Occidente: potrebbe raggiungere le Indie (così viene chiamato l’estremo Oriente) via mare, attraversando l’oceano Atlantico oppure circumnavigando il Continente africano. Perché vogliono raggiungere le Indie? Perché ritengono che esse siano ricche di oro e di uomini da asservire ai propri interessi. In altri termini, gli europei vogliono arrivare alle Indie per arricchirsi a spese delle popolazioni indigene. Ed è questa la motivazione che spinge Colombo. In cambio, Ferdinando e Isabella gli promettono il 10 per cento dei profitti, la carica di governatore delle terre scoperte e la fama che lo avrebbe accompagnato nei secoli grazie ad un nuovo titolo appositamente creato per lui: ammiraglio del Mare Oceano (ZINN 2007: 10).
Un giorno di ottobre del 1492 gli abitanti di un’isola delle Bahamas vedono avvicinarsi tre strane imbarcazioni. Sono le caravelle di Colombo, che, essendo convinto di essere arrivato nelle Indie, chiama “Indiani” quelle persone che gli vengono incontro a nuoto in atteggiamento amichevole e che, in realtà, sono gli “americani” arawak. Ne carica alcuni sulle caravelle, affinché gli indichino dove si trova l’oro che, è convinto, abbonda in quelle terre, e prosegue la navigazione, toccando le coste di Cuba e di Hispaniola, dove effettivamente trova tracce del prezioso metallo. Ormai è certo: quelle terre sono disseminate di miniere aurifere, che bisogna cercare con calma. Adesso bisogna far ritorno in patria per comunicare la notizia. Prima però costruisce un piccolo forte utilizzando il legname di una delle caravelle che si è incagliata, e vi lascia i 39 uomini dell’equipaggio con l’ordine di continuare a cercare e raccogliere l’oro.
Appreso che possono avere oro e schiavi in quantità, i sovrani di Spagna offrono a Colombo mezzi sufficienti allo scopo: 1200 uomini e ben 17 navi, che dovrebbero ritornare cariche di oro e schiavi. Giunto a Hispaniola (1495), Colombo scopre che i marinai che ha lasciato al forte sono stati uccisi e che i campi auriferi non ci sono. Comprensibilmente irritato, dà ordine agli arawak di cercare l’oro e commina a chi ritorna a mani vuote torture e morte. Intanto gli spagnoli si dividono le terre e le fanno coltivare agli indigeni, molti dei quali, non sopportando quei ritmi di lavoro, muoiono. Colombo ritorna in Spagna con un magro bottino, 1500 indiani, che vengono venduti come schiavi, ma la sua scoperta non cessa di eccitare la fantasia altri cercatori di ricchezze. Secondo Howard Zinn, in futuro Colombo sarà ricordato solo come un valente navigatore e non anche come l’iniziatore di un genocidio, che verrà portato a termine negli anni seguenti dai suoi successori (2007: 16). E qualcosa di simile accadrà in altre circostanze e in altri luoghi, quando Cortés sottometterà gli aztechi in Messico, Pizarro gli incas in Perù, i coloni inglesi i powhatan e i pequot in Virginia e in Massachussetts.

Agli inizi del XVI secolo, quando spagnoli, francesi e inglesi cominciano ad insediarsi stabilmente nell’America del nord, si stima che questo Continente sia abitato da non più di tre milioni di “indiani”. I primi ad arrivare nel Centroamerica sono gli spagnoli di Cortéz (1519). Chi sono costoro? Per la maggior parte sono uomini di origine plebea (contadini, artigiani, pastori) che hanno già combattuto contro i musulmani e si muovono sotto la spinta della miseria e dell’ardore religioso. Sono guidati da pochi gentiluomini, che partecipano all’impresa con propri beni (caravelle, capitali, armi, cavalli). In pratica, si tratta di una spedizione privata, che è condotta con l’intento di trarre un profitto economico e con lo spirito di crociata, che mira cioè a fare bottino e a convertire al cristianesimo delle popolazioni primitive e senza Dio. In termini tecnici, si potrebbe parlare di impresa commerciale in accomandita semplice e animata da spirito religioso. Alla fine, questi uomini annientano l’impero atzeco di Montezuma e diventano padroni del Messico. Qualche anno dopo è la volta di Pizarro (1532), che rovescia l’impero inca in Perù (1532).
I conquistadores rimangono legati alla loro terra d’origine, ossia la Spagna, il cui re si mostra molto interessato all’esito dell’impresa, nella quale intravede enormi per la corona, e così si giunge al seguente compromesso: il re concede ai conquistadores un esteso territorio (encomienda), che essi possono sfrutta a proprio vantaggio, organizzare, proteggere e cristianizzare, ma che rimane di proprietà della corona. Di fronte alla tendenza dei conquistadores di fare dell’encomienda un proprio regno ereditario, i sovrani spagnoli tentano di reagire (leggi di Carlo V, 1542-3), ma senza molto successo. Alla fine, la corona di Spagna e i conquistadores si dividono i frutti della conquista, sfruttano le miniere locali e impongono un lavoro servile agli “indiani”, i quali però mostrano una scarsa resistenza alla fatica, e molti di essi si ammalano e muoiono. Per risolvere il problema, i re cattolici Ferdinando e Isabella accettano l’idea di importare schiavi dall’Africa (1501). Intanto, dalla Spagna arrivano nuovi coloni, che si insediano nei territori ancora liberi. Alla fine, l’America spagnola risulta disseminata di piccoli regni al comando di un sovrano spagnolo, il quale sfrutta le risorse del territorio avvalendosi del lavoro di schiavi negri e “indiani”.
Nello stesso periodo, francesi e inglesi esplorano l’America del nord nel tentativo di trovare un passaggio per raggiungere via mare l’Estremo Oriente. Non riescono nel loro intento, ma in compenso stabiliscono rapporti con le popolazioni indigene, avendo, come obiettivo principale, i francesi il commercio delle pellicce, gli inglesi la colonizzazione. In ogni caso, la colonizzazione è opera di compagnie di commercio e di associazioni di proprietari, che sono mossi da uno spirito capitalistico allo scopo di realizzare un profitto economico. Anche in questo caso, si tratta per lo più di poveri diavoli, anche se non mancano figli cadetti di famiglie aristocratiche e piccoli nobili di campagna in cerca di fortuna e di gloria.
I primi coloni francesi si insediano in Acadia e nel Quebec, rispettivamente nel 1604 e nel 1608, e, qualche anno dopo, espandendosi verso la regione dei Grandi Laghi, cominciano a scontrarsi con gli “indiani” del luogo, gli irochesi. È subito chiaro che si tratta di una lotta impari, fra gruppi assai diversi per organizzazione e armamenti. I bianchi hanno grandi navi, spade di ferro e fucili, contro cui nulla possono le frecce di selce e i tomahawk degli indiani, i quali subiscono l’attrattiva della superiore civiltà dei francesi e chiedono le loro armi, così come i loro tessuti e le loro bevande inebrianti, in cambio di pellicce. La conseguenza è che, se prima gli indiani uccidevano i bisonti in base alle loro necessità alimentari, adesso si vedono costretti ad abbatterne un numero sempre maggiore. La caccia indiscriminata al bisonte per questioni commerciali, contribuisce a modificare i tradizionali costumi degli indiani, che, mentre seguono le mandrie, talvolta sconfinano nel territorio altrui e innescano conflitti intestini, che finiscono per indebolirli. Intanto i francesi, nel perseguire i loro interessi commerciali, a volte stringono accordi con le tribù indiane, altre volte si scontrano con le stesse, e, a poco a poco, verso la metà del XVIII secolo, si trovano infiltrati in quasi tutta l’America del nord, anche se sono relativamente poco numerosi e trascurati dalla madre patria.
La colonizzazione inglese inizia nel 1607 in Virginia e prosegue, quasi senza sosta, lungo la costa atlantica. Chi sono questi colonizzatori? Sono membri di minoranze politiche e religiose, che fuggono dalla patria per sottrarsi a persecuzioni o a situazioni giudicate intollerabili, animati dal desiderio di libertà, indipendenza e democrazia. Alcuni di questi sono membri di congregazioni religiose dissidenti perseguitati dall’episcopato anglicano, altri, pur essendo membri effettivi della Chiesa d’Inghilterra, ne criticano alcune posizioni. Nel novembre 1620 la nave Mayflower, carica di un centinaio di uomini, che verranno chiamati Padri Pellegrini, approda nella costa del Nord America, presso capo Cod. Sono in gran parte cristiani dissidenti che, per sfuggire alla persecuzioni, hanno trovato rifugio in Olanda. Prima di sbarcare, una quarantina di loro firmano un contratto, il Mayflower Compact, con cui s’impegnano a costituire una comunità egalitaria fondata sui principi del cristianesimo primitivo. Poi, dopo un’opportuna ricognizione della zona, scelgono la sede d’insediamento e vi costruiscono un villaggio di nome Plymouth.
Nel 1628 una grande ondata di migranti puritani raggiunge la baia di Boston e vi si insedia. I puritani sono membri della chiesa d’Inghilterra, di cui contestano le tendenze cattolicheggianti di questa e reclamano la «sola scrittura» a norma della vita cristiana. Pellegrini e puritani sono accomunati dall’essere impregnati di spirito evangelico e dalla volontà di costituire una comunità cristiana modello. Essi desiderano la pace, ma accettano la guerra quando ritengono che essa sia necessaria e ascrivibile ai disegni di Dio. La vittoria sui nemici e la prosperità economiche sono considerate segni tangibili della benedizione divina (SPINI 1968: 5-26).
Lo Stato inglese li lascia fare e accorda loro la facoltà di organizzarsi a piacimento. La prima Costituzione viene redatta in Virginia nel 1609. Le colonie del Sud sviluppano un’economia esclusivamente agricola: nelle grandi piantagioni, che richiedono una mano d’opera numerosa, a partire dal 1620, cominciano a confluire schiavi importati dall’Africa e si consolida una società aristocratica di proprietari terrieri. Inizialmente le colonie sono del tutto scollegate fra loro ma, a lungo andare, la lotta contro nemici comuni, indiani e francesi, finirà per creare un sentimento di affinità e di identità di destino.
Inizialmente, i rapporti con gli indiani sono pacifici e molti di questi si lasciano plasmare dalla cultura dei nuovi arrivati e si convertono alla loro religione. A parte qualche isolato episodio, come la barbara strage degli indiani Pequot (1637), questo stato di pace è solo turbato dallo scontro tra francesi e inglesi, nel quale rimangono coinvolte le tribù indiane, le quali cercano di allearsi ora con questi ora con quelli, allo scopo di trarre qualche vantaggio per sé. In cambio del loro appoggio e delle loro pellicce, chiedono armi, con le quali combattono le tribù confinanti, le quali, a loro volta, fuggono e spingono più in là le tribù vicine, e così via indefinitamente. Il XVII secolo è caratterizzato da un susseguirsi di conflitti armati tra francesi e inglesi per la conquista del territorio, con gli indiani a fare da spalla agli uni o agli altri. Alla fine i francesi vengono battuti e il Canada passa sotto l’Inghilterra (1763). Due anni dopo si apre un conflitto armato contro gli indiani del cosiddetto re Filippo (1675-6), che segna l’inizio di una lunga stagione di guerre. Intanto, il rigidismo religioso dei primi coloni si va stemperando fino ad assumere i contorni di un protestantesimo liberale.
Circa un secolo dopo l’insediamento dei primi coloni europei, le tribù indiane appaiono decimate. A rendere più elevate le loro perdite contribuisce la diffusione di epidemie, come vaiolo, tifo, tubercolosi, varicella, tifo e pertosse, che sono state portate in America dagli europei e, nei confronti delle quali, gli indiani non hanno alcuna difesa immunitaria. Molti indiani sono tenuti nei fortini dei bianchi come schiavi. Per tacitare le proprie coscienze e giustificare le loro azioni, i bianchi elaborano teorie, secondo le quali gli indiani sono dei selvaggi, rozzi, crudeli e sanguinari, privi di morale e di religione. Se alcune tribù si piegano di fronte alla superiorità dei bianchi e si europeizzano, altre rimangono fieramente legate alle proprie tradizioni e non depongono le armi.
Nel 1754 le colonie inglesi, che ammontano a tredici, sono ancora troppo fiere della propria indipendenza per accettare la proposta di Benjamin Franklin di unirsi in confederazione. La situazione cambia nel 1763 quando, per estinguere i debiti della guerra dei Sette anni, lo Stato inglese pretende di imporre alle colonie delle tasse, senza nemmeno consultarle. Ai coloni sembra ingiusto di essere fatti oggetto di dovere senza essere soggetti di diritto, e così si rifiutano di pagare, a meno che non siano rappresentati in Parlamento, e, poiché il governo inglese respinge questa richiesta e continua a gravarli di pesanti dazi e a penalizzarli con leggi di parte, le colonie si alleano per combattere contro la madrepatria e per la propria indipendenza (1774).
Le ostilità iniziano l’anno seguente, essendo George Washington (1732-99), un facoltoso proprietario terriero, l’”uomo più ricco d’America” (ZINN 2007: 62), al comando dell’esercito americano. Nonostante l’euforia del momento, le prospettive degli insorti non sono rosee e il loro evidente stato d’inferiorità si traduce in molte diserzioni e in una scarsa affluenza di volontari. Al contrario, le truppe inglesi sono meglio organizzate e possono contare su un valido contingente di mercenari tedeschi, provenienti dall’Assia. A favore degli americani si schierano però i nemici europei dell’Inghilterra, Francia, Spagna e Paesi Bassi, che cercano di approfittare della situazione. Ciò nonostante, le cose si mettono male per le Colonie che, più volte sconfitte, hanno il morale a pezzi e vedono progressivamente assottigliarsi le fila del proprio esercito. Buon per loro che Washington non è tipo da scoraggiarsi facilmente e, con le poche forze a sua disposizione, riesce a cogliere, contro le truppe mercenarie degli assiani, un insperato successo (Trenton, 1776), di per sé modesto, ma tale da suscitare nuovo entusiasmo nella popolazione coloniale e rendere possibile la Dichiarazione d’indipendenza (1776).

11.2. La Dichiarazione d’indipendenza
Ispirandosi al pensiero di Locke e Montesquieu, Thomas Jefferson, l’estensore materiale della Dichiarazione, considera il singolo individuo il miglior giudice del modo di perseguire la propria felicità e afferma che tutti gli uomini nascono uguali ed hanno diritto alla libertà. Quello che ne risulta, infine, è un sistema liberale, non egualitario, dove a tutti viene riconosciuto il diritto di fare la scalata sociale e di costruirsi da sé, e ai ricchi viene concesso di conservare i propri privilegi (BRAUDEL 1966). Se nei due secoli precedenti l’America ha attirato membri di tutti i popoli, di tutti i ceti sociali e di ogni cultura, adesso consacra il ceto possidente a classe dominante (HUBERMAN 1977). Infatti, già alla chiamata di leva, si nota la prima evidente disparità di trattamento: chi ha la possibilità di pagare per farsi sostituire, cioè i poveri, devono arruolarsi (ZINN 2007: 57).

L’ulteriore affermazione militare degli americani sugli inglesi a Saratoga (1777), da un lato determina il rafforzamento dell’esercito, attraverso un incremento del flusso di volontari, dall’altro induce la Francia a riconoscere gli Stati Uniti e a firmare con essi un trattato di mutua difesa, seguita poco dopo da Spagna e Paesi Bassi. L’ennesima vittoria di Washington a Yorktown (1781) si rivela decisiva, dal momento che induce gli inglesi ad eleggere un nuovo governo, che avvia trattative di pace e firma il Trattato di Parigi (1783), riconoscendo l’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
Adesso gli americani avvertono l’esigenza di un governo centrale forte, ma non vogliono rinunciare all’indipendenza dei singoli Stati. Come fare? Si comincia a lavorare attorno ad un progetto di Costituzione (che vedrà la luce nel 1787), i cui maggiori ispiratori sono Bentham, James Mill e Madison, sostenitori, specie quest’ultimo, di una democrazia rappresentativa in uno Stato federale, dove la sovranità appartiene al popolo, che la esercita attraverso i suoi rappresentanti, i governanti, iscritti a partito, vengono eletti dal popolo con voto segreto, i poteri dello Stato sono divisi in esecutivo, legislativo e giudiziario, la costituzione contiene le norme valide del tutti a garanzia del rispetto delle libertà e dell’uguaglianza di fronte alla legge, lo Stato minimo interferisce il meno possibile nella vita privata dei cittadini, le donne e i poveri sono esclusi dalla pienezza dei diritti politici, per es. il voto, che sono riservati ai maschi possidenti.
La democrazia rappresentativa, unita al principio federale, rende possibile conciliare istituti e condizioni, che nel passato erano sembrati poco compatibili, come un principe elettivo (il Presidente della repubblica o il Capo di governo), un insieme di Stati-nazione di grandi dimensioni (l’equivalente di un Impero), la proprietà privata dei mezzi di produzione (capitalismo borghese), un’economia di mercato fondata sulla libera concorrenza (liberismo), una condizione minoritaria delle donne (maschilismo) e dei lavoratori salariati (società duale).
La Costituzione stabilisce che ogni Stato ha diritto ad una propria amministrazione e una propria milizia, mentre al governo centrale spetta il controllo della politica estera e dell’esercito. In accordo col pensiero di Montesquieu, i tre poteri del governo federale vengono divisi: quello esecutivo è affidato al Presidente, che è eletto direttamente dal popolo; il potere legislativo compete al Congresso, che è formato da un Senato e da una Camera di deputati eletti nei vari Stati; il potere giudiziario viene riservato ai giudici, anch’essi eletti in ogni Stato, ed alla Corte Suprema federale, che ha il compito di far rispettare la Costituzione. Per evitare il predominio dei grandi Stati sui piccoli, la rappresentanza proporzionale viene limitata alla Camera, mentre si stabilisce che ogni Stato, indipendentemente dalla grandezza, sia rappresentato al Senato da due membri. Nel 1788 la Costituzione viene ratificata e Washington è eletto primo presidente degli USA (1789-97). Nasce così la Repubblica federale degli Stati Uniti d’America.

11.3. Federalist e Democrazia
Che cos’è il Federalist? Quando è stato pubblicato? Nessuno degli autori de Il Federalist è veramente democratico. Hamilton, il principale autore, è un monarchico conservatore, che vuole un governo fondato sul dominio dei possidenti (REINHARD, 2000: 176). Se fino a Montesquieu si è ritenuto che la DD sia adatta solo alle piccole comunità, Madison, il secondo autore de Il Federalist, considera questa forma di governo molto pericolosa, in ogni caso, e ritiene che la migliore forma di governo sia la DR. Dopo Madison, la rappresentanza diventerà il simbolo stesso della modernità e, già pochi anni dopo, l’abate Sieyès (1748-1836) potrà dichiarare che “tutto è rappresentanza” nello Stato moderno e che la DD è roba degli antichi.

Sotto la presidenza di Washington si costituiscono due schieramenti politici: i federalisti, guidati da Alexander Hamilton, che rappresentano gli interessi degli industriali e dei grandi commercianti, prevalenti a Nord, e mirano al rafforzamento del potere centrale; i democratici, guidati da Thomas Jefferson che, ispirandosi ai principi di Rousseau e dell’illuminismo, stanno dalla parte dei piccoli proprietari, prevalenti a Sud, e sostengono la più ampia autonomia dei singoli Stati nei confronti dello Stato federale. Prevale il partito di Jefferson (1801-09), che inaugura un periodo di pace interna.
Intanto prosegue la colonizzazione dell’Ovest (West), che è ancora occupato da circa mezzo milione di indiani. Prevalendo lo spirito di indipendenza, solo raramente le diverse tribù appaiono disposte a coalizzarsi tra loro contro il nemico comune e, quando lo fanno, non si dimostrano sufficientemente determinati e ben organizzati, subendo dure sconfitte, come a Prophetstown (1811). Mentre la popolazione “indiana” cala, quella bianca cresce e, in circa 30 anni, va oltre al raddoppio: da 4 milioni nel 1789, si passa a 9.600.000 nel 1821. Vengono fondati nuovi Stati. Da quel momento ha inizio un consistente flusso immigratorio che, in 40 anni, introduce in America circa 4 milioni di europei, in prevalenza irlandesi, tedeschi, inglesi e francesi.

10. Gli italiani

Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492) appare evidente che i piccoli stati in cui è suddivisa l’Italia non possono competere con le grandi monarchie di Spagna, Francia e Austria, che, come belve fameliche, si avventano sulla preda contendendosela. In un primo momento, ha la meglio la Spagna, la quale, sotto Carlo V (1516-56), assume il controllo del paese, ad eccezione della Savoia e di Venezia. La Spagna amministra in modo differente la Lombardia e il Meridione: essendo la prima un territorio di confine con l’Austria, le viene attribuita maggiore importanza e la si tratta meno duramente, mentre il Meridione viene visto solo come una terra da sfruttare. Qui gli Spagnoli sviluppano una mentalità aristocratica e altezzosa e favoriscono i grandi proprietari terrieri e i nobili (i cosiddetti “baroni”), a svantaggio della borghesia. Non molto diversa è la situazione nello Stato della Chiesa, all’interno del quale il papa dilapida grandi somme di denaro nella sua sfarzosa corte a Roma, mentre, tutt’intorno, le masse dei coloni coltivano i latifondi di proprietà delle nobili famiglie romane, vivendo in misere condizioni.
Col trattato di Utrecht (1713) l’egemonia spagnola viene temporaneamente sostituita da quella austriaca, mentre la Spagna non si dà per sconfitta e la Francia non ha ancora deposto le sue mire. Alla fine si giunge al trattato di Aquisgrana (1748), che dà agli Asburgo la Toscana e Milano, ai Borbone di Spagna il regno delle Due Sicilie, Parma, Piacenza e Guastalla, alla Francia Modena e Genova. Gli unici tre Stati indipendenti della penisola sono la Savoia, che è riuscita ad organizzare un efficiente esercito, rinforzato da soldati mercenari svizzeri, lo Stato pontificio, che attraversa un periodo di relativa tranquillità sotto il governo paternalistico dei papi, e Venezia, che è avviata in una lenta fase di declino. Questo assetto si manterrà fino all’epoca napoleonica.
Spaventati dalla Rivoluzione francese, i vari signori italiani tirano le redini e attuano una politica dura, affinché non si abbia a ripetere in Italia quanto è avvenuto in Francia. Così, quando, a partire dal 1792, gli eserciti della Rivoluzione dilagano nel Norditalia, trovano generalmente buona accoglienza da parte di una popolazione che, vedendosi coartata da una politica angusta e retrograda, accetta di buon grado di passare sotto il controllo di Napoleone, il quale lascia all’Austria solo il Veneto (pace di Campoformio, 18.10.1797). Poi è la volta di Roma (1798) e di Napoli (1799). Nel 1809, ad eccezione della Sardegna, dove si sono rifugiati i Savoia, e della Sicilia, che è sotto i Borbone, tutta l’Italia è nelle mani di Napoleone, che la divide in Repubbliche, dove, malgrado il comportamento rapace dei francesi, si risveglia in molti un desiderio di libertà.

10.1. Cesare Beccaria: un illuminista italiano
Cesare Beccaria (1738-94) non è un sovversivo o rivoluzionario e non è nemmeno un innovatore. Egli al contrario ossequia il sistema sociale (politico e religioso) del suo tempo e, almeno a parole, non ha alcuna intenzione di contestare nulla e nessuno. Ma è animato dai principi illuministici, e quando scrive Dei delitti e delle pene, il tono è apparentemente pacato e improntato al semplice buon senso di uno che aborre la violenza gratuita e vuole dire la sua, non certo di uno che ha coscienza di essere fortemente innovativo, né di dare alla stampa un’opera che sarebbe stata letta e citata per oltre due secoli.
Beccaria non solo contesta l’opportunità della pena di morte, definita “né utile né necessaria” (1994: 117), ma anticipa molti principî giuridici che diventeranno ovvi in seguito, come la presunta innocenza dell’imputato (1994: 92), l’opportunità che giudizi e accuse siano pubblici e non ci si avvalga dell’opera di delatori segreti (1994: 89-91), né della tortura, che costituisce un’inutile barbarie (1994: 91-8). Beccaria è per la mitezza delle pene, purché siano certe. “Uno dei più gran freni dei delitti –scrive– non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione” (1994: 114).

09. I francesi

Fallito il tentativo degli inglesi di estendere la propria egemonia in Europa da parte degli inglesi, ora ci provano i francesi con Carlo VIII (1483-98), il quale, col pretesto di avere diritto alla corona di Napoli, in quanto erede degli angioini, dà inizio ad un’azione militare in Italia (1494), che ha lo scopo di conquistare la penisola. Carlo VIII fallisce nell’impresa, che però viene ritentata dal suo successore Luigi XII (1498-1515), il quale cerca preventivamente l’avallo di Venezia, del papa e della Spagna. Alla fine, la Francia riesce ad annettere solo il ducato di Milano, mentre il Meridione va alla Spagna.
Temendo l’eccessivo potere di Carlo V, la Francia impugna le armi contro gli Asburgo, essendo sostenuta dagli Stati italiani, anch’essi seriamente preoccupati dal crescente potere imperiale. Alla fine Carlo V riesce a sottrarre ai francesi Milano (che assegna agli Sforza, propri vassalli) e ad assumere il pieno controllo dell’Italia, ma non riesce a scalfire l’integrità territoriale della Francia, che, dopo l’abdicazione di Carlo V, riprende a cullare sogni egemonici in Europa, ma viene sconfitta dalla Spagna (1557) e deve rinunciare ad ogni pretesa in Italia. Prostrata dalla lunga guerra contro l’Impero, la Francia deve adesso attraversare un periodo critico, che è segnato da guerre di religione. Esso si conclude con l’ascesa al trono del cattolico Enrico IV di Borbone (1589-1610), che avvia una politica orientata al risanamento economico, alla riorganizzazione dello Stato e al rafforzamento dell’autorità regia, politica che verrà proseguita dai suoi successori, Luigi XIII (1610-43), Luigi XIV (1643-1715) e Luigi XV (1715-74), sotto i quali, e in particolare sotto Luigi XIV, si instaura una monarchia assoluta e si attua una politica espansionistica, alimentata dal mercantilismo e dal nazionalismo francese.
Luigi XIV vede nella guerra uno strumento della sua grandezza personale oltre che un piacevole passatempo, e, per l’intera durata del suo regno, vi si impegna incessantemente non tanto per assicurare la pace ai suoi sudditi, quanto per accrescere il proprio territorio. Contro la politica imperialistica della Francia si coalizzano Austria, Inghilterra, Olanda, Piemonte, Portogallo e il principe del Brandeburgo, Federico I Hohenzollern, che ottiene in cambio il titolo di re di Prussia (1701). Ne origina una guerra (1702) che si conclude con il trattato di Utrecht tra Inghilterra e Olanda (1713) e quello di Rastadt tra Francia e Austria (1714). La vera vincitrice del conflitto è l’Inghilterra: la Francia perde Milano e Napoli e la Sardegna, a favore dell’Austria.
Sotto Luigi XV (1715-74) e Luigi XVI (1774-92) la Francia conosce una fase di relativa pace e di ripresa economica, cui s’associa un’espansione demografica e un’ascesa della borghesia, oltre ad una crescita culturale ed una ricca produzione letteraria, che la pone ai vertici in Europa e nel mondo. I philosophes, con le loro idee sui diritti naturali, sulla separazione dei poteri politici e sui valori democratici, fanno scuola e trovano calda accoglienza all’interno di una classe borghese, che è desiderosa di emulare la nobiltà, anche se i nobili la guardano con disprezzo. In fondo nella scala sociale c’è la massa dei contadini e dei salariati, che è relativamente inerte e priva di una propria organizzazione unitaria e di un proprio progetto politico.

09.1. La società francese nel XVIII secolo
La società francese appare nettamente divisa in due gruppi: una sparuta minoranza di privilegiati (i nobili e gli alti prelati), e una larga maggioranza di esclusi (la borghesia e le masse popolari). In realtà vengono riconosciute tre classi sociali o stati, ma ciò non modifica la sostanza delle cose, che è quella di una società duale. Il primo stato è formato dai nobili, grandi proprietari terrieri, che non lavorano, non pagano tasse e vivono nel lusso (circa l’1,5% della popolazione). Il secondo stato (circa lo 0,5% della popolazione) è formato dall’alto clero (vescovi, cardinali, abati), che vivono allo stesso modo dei nobili, godendo degli stessi privilegi. Il terzo stato comprende il restante 98% della popolazione (borghesi, artigiani, operai e contadini), i quali lavorano, pagano le tasse e mantengono il paese, ma versano in misere condizioni.

09.2. La Rivoluzione
Fino al 1789 l’istituto monarchico raramente è messo in discussione e sono in pochi a parlare di uguaglianza e di democrazia (FORREST 1999: 23), e nemmeno di popolo. Quando parla della nazione, Montesquieu si riferisce essenzialmente al clero e alla nobiltà: il terzo ordine, il popolo, non conta. Tale è il quadro politico in Francia alla vigilia della Rivoluzione, ma è destinato a cambiare in breve tempo. Le enormi spese sostenute dal re Luigi XVI per favorire la lotta delle Colonie americane contro il nemico inglese indeboliscono le finanze della sua nazione e, insieme alla filosofia della libertà abbracciata da molti soldati francesi in America, concorrono a determinare le condizioni favorevoli ad un’esplosione rivoluzionaria. Anche di fronte alla crisi finanziaria del paese e alla richiesta, da parte di alcuni economisti dell’epoca, di imporre il pagamento delle tasse anche ai nobili e agli ecclesiastici, questi si oppongono con fermezza. È la scintilla della Rivoluzione.
Così, nel giugno 1789, il terzo stato, il basso clero e un certo numero di nobili di spirito liberale, volendo porre fine all’ancien régime e dare alla Francia una costituzione liberale, si riuniscono in Assemblea nazionale costituente, con due importanti conseguenze: la prima è la rinuncia dei nobili ai loro privilegi (4 agosto), che segna la fine del regime feudale; la seconda è l’approvazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto). Fondata sui principî dell’illuminismo, quest’ultima andrà a far parte della Costituzione francese, il primo organico esempio di tradurre il diritto naturale in diritto positivo. Inoltre, vengono confiscati i beni del clero (novembre), soppressi i diritti feudali e i titoli nobiliari, ripristinato l’antico istituto dell’elezione dei vescovi da parte del popolo (1790), fatto divieto ai lavoratori di formare associazioni professionali e di scioperare (1791), il che tradisce l’orientamento borghese dei rivoluzionari.

09.2.1. Una rivoluzione borghese
“Chi si trova ai due estremi della scala sociale non vuole o non può cambiare. Chi, in alto, sta bene, dai cambiamenti non può ricevere che danno. L’indigente è immobile per la sua impotenza. Vuol cambiare chi sta nel mezzo. E ha la forza di cambiare. Come la borghesia” (SEVERINO 1997: 148). I poveri sono abituati a non avere niente, non sperano, non lottano, non partecipano, non rivendicano. Per loro le prospettive sono sempre nere. Solo chi ha qualcosa partecipa alla politica e lotta per i propri interessi, e lo fa con un impegno e con dei mezzi generalmente proporzionati al reddito. In pratica, la politica è un affare dei possidenti, e solo i più facoltosi possono raggiungere i vertici del potere.
Di norma, le rivoluzioni vengono fatte dalle classi sociali intermedie e quella francese non fa eccezione: i suoi principali limiti sono la partigianeria a favore della borghesia e la diffidenza nei confronti delle masse popolari. Infatti, i valori fondanti del pensiero illuminista, come la libertà e l’uguaglianza, l’individualismo e la proprietà, la tolleranza e il contratto, corrispondono alla voglia della borghesia di realizzare condizioni di laissez-faire (GOLDMANN 1967) e presentano contraddizioni e limiti propri della nuova classe dominante (GEYMONAT 1971). I rivoluzionari vogliono sostituire la “vecchia” società, che è basata sul ceto e sui diritti legati alla nascita, con una “nuova” società, che è basata sui meriti individuali e sul denaro. C’è un tale rigetto dei diritti di nascita da indurre il Direttorio a privare tutti i nobili della cittadinanza francese (1897).
In teoria, la nuova gerarchia sociale dovrebbe scaturire da un’uguaglianza di opportunità e da una libera competizione fra gli individui. Ciò è quanto sostengono i rivoluzionari più puri, come Gracco Babeuf (1760-97), il quale non esita ad indicare nella proprietà privata individuale “la fonte principale di tutti i mali che gravano sulla società” (Buonarroti 1971: 56). Nel nuovo ordine sociale preconizzato da Babeuf “la proprietà di tutti i beni esistenti sul territorio nazionale è unica e appartiene inalienabilmente al popolo, che solo ha il diritto di assegnare l’uso e usufrutto” (Buonarroti 1971: 148).
In pratica però l’uguaglianza di opportunità viene negata nel momento in cui si eleva la proprietà privata, senza limiti, a diritto fondamentale, essendo ovvio che il ricco possidente avrà molte più opportunità rispetto a chi non possiede nulla. Ora, è proprio questa la questione: le terre che i rivoluzionari hanno requisito ai nobili ed agli ecclesiastici, non vengono redistribuite ai contadini, secondo le loro capacità lavorative, ma rivendute per sostenere uno sforzo bellico, che è difensivo e offensivo ad un tempo, così che le disuguaglianze sociali rimangono, anche dopo l’abbattimento del ceto aristocratico.
Sulla libertà, invece, i rivoluzionari si battono con accanimento e determinazione. Ogni cittadino dev’essere lasciato libero di perseguire il proprio disegno di vita e lo Stato deve intralciarlo il meno possibile: è il principio cardine del liberalismo politico e del liberismo economico, che è concepito come “l’antitesi dei privilegi corporativi e dei monopoli regi che avevano caratterizzato il Settecento” (FORREST 1999: 83). Ma se, come abbiamo visto, la libertà d’iniziativa non s’accompagna ad una parità delle condizioni di partenza, i privilegi persistono e la società rimane disuguale e ingiusta.

09.2.2. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino segna la fine del cosiddetto ancien régime e l’inizio di una nuova civiltà, che è fondata sui seguenti principî:
• I cittadini sono uguali e liberi (individualismo).
• Essi hanno il diritto di scegliersi la classe governante (democrazia rappresentativa) attraverso il voto (partiti politici).
• Ogni cittadino è libero di organizzare la propria vita come meglio crede (liberismo): tramontano le vecchie corporazioni di tipo medievale, rigide e chiuse.
• La giustizia dev’essere uguale per tutti (uguaglianza dinanzi alla legge): cessano i tribunali riservati ai ceti alti.
• I cittadini sono liberi di esprimere le proprie opinioni (libertà di parola e di stampa).
• Se lo Stato è di tutti e se tutti devono difenderlo, non è più necessario ricorrere alle truppe mercenarie, ma devono essere gli stessi cittadini a formare l’esercito (esercito nazionale, leva obbligatoria).
• La terra dev’essere tolta ai grandi proprietari e data a chi la lavora (primato del lavoro).
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino viene condannata da Pio VI (1791). Qualche anno dopo, Pio VII criticherà anche la libertà di parola e di stampa (Diu satis, 1800). Ma il processo rivoluzionario non si arresta: qualche anno dopo, le donne ottengono il diritto di comprare, vendere ed ereditare, mentre a ragazzi e ragazze viene riconosciuto il diritto all’istruzione scolastica statale (1794), anche se la società rimane sostanzialmente maschilista.

Una nuova Assemblea istituitasi nel 1792, la cosiddetta Convenzione, dichiara abolita la monarchia e proclama la Repubblica. Non passa molto che il re viene condotto al patibolo e giustiziato (21 gennaio 1793). In pochi anni, il quadro politico è completamente rovesciato. Adesso il terzo stato conta. Nel suo opuscolo dal titolo Che cos’è il terzo stato?, l’abate di Sieyès (1748-1836) afferma che, dal momento che è il popolo a mantenere in vita la nazione col proprio lavoro, il terzo stato è tutto.
Una delle figure di primo piano in questo periodo è Robespierre (1758-94), un oscuro avvocato di provincia, grande estimatore di Rousseau e della cultura illuminista. Eletto deputato nel 1783, nel 1790 diviene presidente dei giacobini e si dedica alla causa della rivoluzione. Il suo stile di vita semplice, umile e ascetico gli vale la fama di «incorruttibile». Crede fermamente nella democrazia e il suo programma prevede il suffragio universale, l’istruzione gratuita e obbligatoria, un’imposta progressiva sui redditi, l’istituzione di posti di lavoro pubblici e un aiuto ai disoccupati. Nel tentativo di tenere unito il paese, che è minacciato dal sollevamento della Vandea ed è in preda alla disorganizzazione sociale e alla crisi economica, Robespierre instaura un clima di terrore, ma gli avversari in parlamento gli si rivoltano contro e riescono a portarlo al patibolo (28 luglio 1794).
Intanto, la Costituzione del 1795 istituisce il Direttorio, ovvero la massima autorità politica del paese, mentre il paese è in stato confusionale: i prezzi sono in continuo rialzo, l’inflazione cresce e la miseria del popolo stride con la smaccata ricchezza dei parvenu. È in questo contesto che fa la comparsa sulla scena politica il pensiero socialista, che trova espressione nel Manifesto degli Eguali e nella Congiura degli Eguali, che si propone di rovesciare il Direttorio, ripristinare la Costituzione del 1793 e fondare la Repubblica degli Eguali, dove “la terra non è di nessuno” (Buonarroti 1791: 312).

09.2.3. L’ascesa di Napoleone
I sovrani d’Europa sono preoccupati per l’andamento degli eventi: temono che il desiderio di libertà e indipendenza esploso in Francia possa estendersi nei loro paesi e mettere in pericolo il loro trono. Vogliono perciò spegnere il fuoco rivoluzionario e restaurare la monarchia francese e, poiché possono contare sia su maggiori risorse sia sul consenso pressoché unanime dei loro popoli, l’impresa a cui si accingono si prospetta come poco più di una semplice passeggiata. Luigi XVI conta su questo aiuto, ma i rivoluzionari lo costringono a dichiarare guerra all’Austria (20.4.1792). La Prussia si schiera a fianco dell’imperatore, e le ostilità hanno inizio.
Alle truppe di Guglielmo II di Prussia e Leopoldo II d’Austria, formate da soldati di professione, i francesi rispondono con una partecipazione massiccia di volontari che, seppur privi di un’adeguata preparazione tecnica e fidando principalmente sull’entusiasmo, sanno tirar fuori coraggio e determinazione tali da indurre il nemico alla ritirata (Valmy, 20.9.1792). La Francia è salva e può proclamare la Prima Repubblica. Non solo: essa si sente così forte e galvanizzata da intraprendere anche una politica d’espansione e, in quattro settimane, il generale Dumouriez conquista il Belgio (6.11.1792). I soldati francesi approfittano della situazione e, come voraci sciacalli, fanno razzia di tutto ciò che possono. Russia e Prussia non sono da meno e, col pretesto di evitare che il disordine rivoluzionario si estenda alla Polonia, come bestie fameliche, si spartiscono quel paese. L’Inghilterra non corre alcun rischio dal punto di vista militare, tuttavia è inquieta perché si sente minacciata nei suoi interessi commerciali e teme l’infiltrazione dei princìpi giacobini. Alla notizia che Luigi XVI è stato decapitato, a Londra la folla chiede di prendere le armi contro la Francia, ma è quest’ultima a dichiarare guerra all’Inghilterra, insieme all’Olanda (1.2.1793), e poco dopo anche alla Spagna (7.3.1793).
Perché la Francia dichiara guerra? Innanzitutto per motivi strategici: essa è certa che verrà attaccata dalle monarchie europee e ritiene che, muovendosi per prima, ha maggiori possibilità di successo. Ma anche per motivi ideologici: è solo con la forza che i francesi potranno consolidare le conquiste democratiche nel proprio paese ed esportarle agli altri popoli. Il conflitto che si apre a livello europeo non è dunque solo uno scontro fra eserciti, ma è anche uno scontro fra i principî monarchici tradizionali, che sono più diffusi, e quelli liberali rivoluzionari, che sono emergenti.
Inizialmente la Francia deve subire, ma sa reagire e, grazie anche alla leva di massa introdotto da Napoleone (agosto 1793), a partire dall’autunno 1793, gli eventi volgono a suo favore. Il servizio di leva di massa viene a modificare profondamente la forza militare del paese. In precedenza ogni Stato disponeva di un proprio esercito permanente, che era costituito da soldati di professione, anche stranieri. Nel caso della Francia, prima di questa riforma l’esercito contava circa 150 mila uomini, mentre dopo la riforma il numero dei soldati aumenta fino 800 mila, ed erano tutti cittadini francesi, né volontari né professionisti. Nate dall’amalgama fra soldati di professione e militari di leva, le armate dei generali francesi realizzano per la prima volta il principio della nazione in armi (CRISCUOLO 1997: 98).
I generali francesi si muovono in modo sempre più aggressivo e disinvolto e assumono un potere crescente, mentre, in patria, i rivoluzionari aprono un periodo di Terrore, con l’intento di eliminare tutti i nemici della Rivoluzione: a migliaia cadono le teste sotto la lama della ghigliottina. Il Direttorio, istituito dalla Costituzione del 1795, non sa fare di meglio che fomentare lo stato di guerra, in cui vede uno strumento atto a tenere alto il morale della gente e a distoglierne l’attenzione dagli insuccessi interni. Questa Francia fa paura ai monarchi europei: non solo perché agita idee liberali, ma anche perché può contare su una numerosa popolazione, entro cui recluta i propri soldati. È una nazione in armi, un immenso esercito di cittadini. All’estero i francesi sono malvisti, e non solo a causa delle loro idee, ma anche per come si comportano, sia in patria, dove attuano la politica del Terrore, sia sulle aree di guerra, dove offrono il vile spettacolo dei saccheggi a danno dei paesi conquistati. Infine, i francesi sono malvisti delle contraddizioni insite nella loro politica espansionistica che, di fatto, nega ai popoli sottomessi i diritti democratici che i rivoluzionari rivendicano per i cittadini francesi.
Il 1796 segna l’inizio dell’epopea napoleonica. Nato ad Ajaccio da una famiglia della piccola aristocrazia corsa, Napoleone Bonaparte (1769-1821) rappresenta il modello di chi riesce a farsi strada nella società e ad emergere, in virtù delle proprie capacità, della fortuna e della forza delle armi. Dal momento che il suo status è legato alla forza, ben si comprende perché egli cura molto l’esercito e si preoccupa di tenere alto il morale dei soldati, ai quali promette brillanti carriere e facili arricchimenti. Nel 1796, quando, appena ventisettenne, riceve il comando dell’Armata d’Italia, che versa in condizioni pietose, subito si adopera per elevare lo stato e il morale delle sue truppe, con discorsi del tipo: “Soldati, voi siete nudi e mal nutriti, ma io vi condurrò nelle pianure più fertili del mondo. Le grandi città e le ricche province cadranno in vostro potere: là troverete onore, gloria e ricchezze”.
Galvanizzato dai primi successi e grazie all’autonomia che gli deriva dai frutti dei suoi saccheggi, quel piccolo esercito regala a Napoleone sensazionali vittorie e gli dischiude la via della gloria: in meno di un anno l’Austria è battuta e l’Italia settentrionale passa sotto il controllo della Francia. Approfittando del proprio successo e dell’impopolarità del Direttorio, il generale Bonaparte riesce ad impadronirsi del potere con un colpo di Stato (10.10.1799), che pone fine alla Rivoluzione e instaura una dittatura militare, che si rivelerà ben più autoritaria della precedente monarchia.

09.2.3.1. La coscrizione di massa
A partire dal 1799 viene istituita la coscrizione annuale regolare, che, per il momento, non è ancora del tutto obbligatoria, essendo concessa al coscritto la facoltà di pagare un sostituto. Essa mette a disposizione della nazione un numero impressionante di soldati, mai visto, né immaginabile nel passato, e cambia il modo di concepire e di condurre la guerra. Se prima la guerra era uno scontro fra signori, sostenuto da opposti interessi di famiglie e combattuta da truppe mercenarie, adesso la guerra si avvia a divenire, almeno in apparenza, uno scontro fra popoli e culture.
In realtà, dietro popoli e culture si possono facilmente scorgere gli interessi delle classi dominanti. Se così non fosse, non si spiegherebbe il fatto che, almeno in tempi di guerra, la coscrizione dev’essere sostenuta da misure coercitive, che di solito sono molto severe, e che, ciò nonostante, rimane elevato il numero di coloro che tentano di sottrarvisi. Il problema della renitenza e della diserzione esiste anche al tempo di Napoleone, quando, pur di non partire sotto le armi, molti ricorrono ad ogni mezzo: finte malattie, automutilazioni, matrimoni, e via dicendo.

Spinto dalla propria ambizione e badando sempre al proprio personale interesse, Napoleone si muove dove lo porta la convenienza, talvolta inclinando verso il vecchio, che è rappresentato dalla tradizione autoritaria dell’ancien régime, talaltra inclinando verso il nuovo, che si incarna nei principî dell’illuminismo e delle idee liberali. Quello che ne viene fuori è un personaggio dall’aspetto bifronte, che, da un lato concede costituzioni e stimola lo spirito nazionale, suscitando il desiderio delle libertà civili proclamate dalla Rivoluzione, dall’altro si comporta come un tiranno, che calpesta i diritti dei popoli, impone gravosi tributi e tutto piega davanti ai supremi interessi della Francia e della propria famiglia. Il “vecchio” Napoleone limita la libertà di stampa, pone il divieto di criticare il governo, persegue gli avversari politici, favorisce la formazione di una classe di intellettuali asservita al potere (1800), firma anche un concordato con la Santa Sede (16.7.1801), che stabilisce condizioni vantaggiose per sé, mentre riduce i sacerdoti al rango di pubblici funzionari stipendiati dal governo. Il “nuovo” Napoleone introduce per la prima volta la scuola dell’obbligo, che è certamente ispirata ai principî illuministi, anche se, in fondo, è anch’essa funzionale al potere.
Se c’è una questione, di fondamentale importanza, che Napoleone non può trascurare, questa è la legittimazione del suo status, ossia la trasformare in diritto del potere che ha conquistato con la forza. Si preparano dunque le procedure per l’incoronazione ad imperatore e, dopo che un referendum popolare ha stabilito che quella carica dev’essere ereditaria, il 2.12.1804 il rito viene celebrato nella cattedrale di Notre-Dame da parte del papa Pio VII (1800-23): a differenza di Carlomagno, Napoleone afferra la corona con le proprie mani e se la pone sul capo da se stesso, come per dire che il potere gli deriva direttamente da Dio, se non dalla sola sua forza. Ecco come nasce una dinastia. Nell’assumere il titolo a governare per volere divino, Napoleone è abilitato a conferire blasoni. Il risultato è il rinnovamento della classe aristocratica, che adesso accoglie nelle sue fila le persone più vicine all’imperatore, non solo gli ufficiali militari più devoti, ma anche e soprattutto i parenti, che sono elevati automaticamente al rango di principi. Questa legittimazione sopravvivrà alla definitiva sconfitta dell’imperatore (1815) e, infatti, il figlio di Napoleone conserverà il blasone e il figlio di un suo fratello potrà rivendicare il diritto di ricostituire l’impero e assumerà il nome di Napoleone III (1852).

09.2.3.2. I titoli nobiliari
Nelle società premoderne è normale la presenza di gruppi di famiglie che, “di generazione in generazione, mantengono posizioni di privilegio in termini di potere, di ricchezza e di status” (BOBBIO, MATTEUCCI, PASQUINO 2004: 624), ed è altrettanto normale che, all’interno di queste famiglie, si individuino dei soggetti, cui attribuire dei titoli e delle funzioni sociali gerarchicamente ordinati. Al vertice c’è un signore, il principe, il re, il faraone, o come lo si vuole chiamare, che esercita il potere sovrano insieme al diritto di trasmetterlo ereditariamente. In teoria, l’interesse di questo signore sarebbe quello di favorire matrimoni all’interno della propria famiglia, allo scopo di determinare la massima concentrazione di “sangue blu” e l’affermazione di un lignaggio con le caratteristiche di rango e di casta di livello superiori.
Tuttavia, l’esperienza insegna che non di rado da una coppia blasonata e potente nascono figli inetti, che rovinerebbero l’immagine del casato, mettendone in pericolo il prestigio, il potere e il patrimonio. Nell’intento di scongiurare una simile evenienza, il signore si riserva anche il diritto di adozione o di cooptazione, vale a dire la facoltà di prescegliere il proprio successore all’esterno della propria famiglia. Capita, infatti, che da una coppia di basso rango nascano figli dotati di spiccate qualità carismatiche e capaci di guidare un paese. L’adozione o la cooptazione di simili personaggi non è un evento frequente nel corso della storia (lo si riscontra ai tempi dell’impero romano), mentre sono più frequenti i casi di uomini nuovi, dagli oscuri natali, che, dopo essersi messi in luce con le proprie forze, hanno poi ricevuto dal sovrano di titoli nobiliari, che poi hanno trasmesso agli eredi.
“Per lo più è la ricchezza il fondamento originario della nobiltà di una famiglia” (BOBBIO, MATTEUCCI, PASQUINO 2004: 625), ma perché una ricchezza possa dare origine ad una nobiltà occorre che essa sia consistente e duratura. Una famiglia che riesca a conservare la propria ricchezza nel corso di diverse generazioni, di solito trova un artista, un cantore, un poeta che ne enfatizza i meriti e ne giustifica il ruolo sociale, spesso riconducendolo a immaginarie origini mitiche. Una volta assodato il superiore rango di una famiglia nei confronti di altre e affermato che esso origina agli inizi del tempo, ne consegue che chi nasce da quella famiglia viene automaticamente riconosciuto come portatore di singolari virtù e, dunque, meritevole di privilegi sociali, quali l’accesso preferenziale o esclusivo alle cariche pubbliche, il diritto all’alleggerimento del carico fiscale o ad essere giudicato in tribunali speciali. Questa logica si infrange ai tempi della Rivoluzione francese, quando si afferma il principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, da cui prenderanno origine le repubbliche democratiche, con le loro Costituzioni e coi loro Parlamenti rappresentativi del popolo.

La politica di Napoleone si attua in due fasi distinte: la prima fase consiste nel conquistare tutte le terre possibili del Nuovo Continente e affidarli a membri della propria famiglia; la seconda fase serve a stabilizzare le conquiste attraverso la realizzazione di un unico apparato amministrativo. Lo scopo ultimo dichiarato è la restaurazione dell’impero romano. Evidentemente, benché ormai sia anacronistica, quest’idea non è ancora morta. Nel perseguire questo obiettivo, Napoleone non si comporta come un sognatore romantico, che vuol fare rivivere un modello politico che non c’è più. Egli si comporta piuttosto come un cinico e opportunista, che mira a diventare padrone del mondo. Napoleone, infatti, tratta i paesi conquistati al pari di una proprietà privata e li gestisce come un affare di famiglia. Le popolazioni sottomesse vengono gravate di tributi e del dovere della coscrizione e defraudate dei loro diritti e dei loro beni, oltre che delle loro migliori opere artistiche. Ma, mentre compie questa disgustosa opera di spoliazione, Napoleone si adopera allo scopo di migliorare l’efficienza e la produttività dello Stato oltre che di uniformare le condizioni di vita dei suoi sudditi: introduce un sistema culturale e giuridico validi in tutto l’impero, modernizza l’agricoltura, costruisce strade, ponti e canali di irrigazione, istituisce scuole e uffici pubblici funzionali, riforma il metodo di riscossione delle tasse. Insomma, si comporta come abitualmente fa un imprenditore nei confronti del proprio patrimonio: cerca di farlo crescere.
Il Codice civile, che entra in vigore nel 1804, è stato elaborato all’interno della classe borghese, di cui salvaguarda gli interessi, e rappresenta il risultato di un compromesso tra le vecchie consuetudini regionali, il diritto romano e le nuove idee diffuse dall’illuminismo. Esso tutela la proprietà privata e la libertà del lavoro, afferma la laicità dello Stato e la libertà di fede, la libertà di coscienza e l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nega il diritto di sciopero e di associazione. La famiglia è concepita in modo gerarchico e autoritario, sulla falsariga dell’impero: così come Napoleone è il capo dell’impero, allo stesso modo il marito è il capo della famiglia. Per contrarre matrimonio, i figli al di sotto di 25 anni devono avere il consenso scritto dei genitori, ma anche se hanno più di 25 anni sono tenuti a chiedere consiglio ai genitori, se non altro come atto di rispetto formale. In caso di adulterio al marito è riconosciuto il diritto di chiedere il divorzio, alla moglie no. Al di là della bontà dei contenuti, il Codice viene visto come un importante passo avanti rispetto al passato, È la prima volta, infatti, che la Francia e l’impero possono disporre di un corpo di leggi scritte in maniera chiara e valide per tutti i cittadini.
Nel maggio 1809 Napoleone estende il suo potere sullo Stato pontificio e decreta la fine del potere temporale dei papi. È un periodo tra i più critici per la chiesa, che deve subire la cultura laica e antireligiosa del repubblicanesimo e del giacobinismo francesi. In questo clima davvero pesante, i porporati, che possono, si trasferiscono a Venezia sotto la protezione dell’Austria. Pio VII risponde con la scomunica, ma invano: viene arrestato e deportato in Francia. È solo dopo la caduta di Napoleone che egli potrà fare ritorno a Roma e recuperare il suo regno.

09.2.3.3. Papi e imperatori
Nel corso della storia, i rapporti fra papi e imperatori sono dipesi dalla rispettiva forza. I papi hanno potuto alzare il tono della voce e il livello delle proprie rivendicazioni quando si sono trovati di fronte a imperatori deboli, mentre hanno dovuto assumere atteggiamenti dimessi e accontentarsi di ruoli secondari allorché hanno avuto di fronte un imperatore forte, com’è avvenuto ai tempi di Costantino, Carlomagno, Ottone I e Napoleone.

In questo periodo la Francia è ritenuta il paese più potente ed evoluto del mondo: la sua cultura fa scuola, la sua lingua è parlata negli ambienti colti di tutta Europa, i suoi ideali politici sono elevati a modello da imitare. Con la campagna di Russia (1812) inizia il declino di Napoleone che, porta a morire in quelle gelide terre mezzo milione di uomini, la maggior parte dei quali reclutati nei paesi sottomessi alla Francia. La sconfitta fa emergere la parte peggiore della personalità di Napoleone, il quale non solo non se ne addebita la responsabilità, ma nemmeno dimostra alcun sentimento di pietà e di pena per tutti quei cadaveri che si è lasciato dietro, mentre lui fuggiva a Parigi. Si dice che, dopo la disfatta di Lipsia (1813), Napoleone abbia esclamato: “Cosa importa a me se muoiono duecento o trecento mila uomini? Le madri ne faranno degli altri” (GEROSA 2005: 481). E in effetti, nonostante che la Francia abbia perduto, dal 1792, oltre un milione di suoi cittadini, Napoleone continua ad arruolare altri giovani figli e il suo esercito, nel 1813-4, conta un milione e duecentomila uomini, contro i 160 mila del 1789.
Sorprende il trattamento di assoluto favore che le potenze vincitrici riservano ad un imperatore sconfitto, responsabile della morte di milioni di persone e del tentativo di fare del Continente europeo una proprietà privata di famiglia. Ad un siffatto personaggio viene concesso di conservare a vita i titoli nobiliari, per sé e per i propri familiari, insieme al principato dell’isola d’Elba e ad una rendita annuale di due milioni di franchi (trattato di Fontainebleau, 11.4.1814)! Nel 1814, dopo la fuga dall’isola d’Elba e l’ennesima sconfitta a Waterloo, Napoleone è costretto ad abdicare e viene deportato nell’isola di Sant’Elena, dove morirà nel 1821. I suoi familiari continueranno a conservare i titoli nobiliari acquisiti.
Dopo la caduta di Napoleone il mondo non è più lo stesso: tramonta definitivamente l’idea di impero, che viene sostituita dagli Stati-nazione, e quella dell’assolutismo monarchico, che lascia il posto alle monarchie costituzionali. Lo stesso Luigi XVIII, che si insedia sul trono di Francia (1814), deve concedere al popolo una Costituzione liberale, che riconosce l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, il diritto di essere rappresentati in Parlamento, le libertà di culto, di opinione e di stampa, oltre al diritto di rappresentanza politica.
08. I tedeschi
Nei paesi germanici, la Riforma luterana trova favorevole accoglienza da parte dei principi tedeschi che, vedendovi l’occasione di emanciparsi dalla presenza invadente dei vescovi, decidono di appoggiarla. Di diverso avviso è l’imperatore cattolico Carlo V (1519-56), che si oppone al fatto che i principi regolino a modo loro le questioni religiose e pretende il rispetto del concordato di Worms (1529). Da parte loro, i principi protestano energicamente (da ciò, l’appellativo “protestanti”) in difesa della loro libertà di religione e si schierano dalla parte di Lutero, sostenuti dalla cattolica Francia, che ha interesse ad indebolire l’imperatore. Alla fine, Carlo V non riesce a sradicare la nuova religione, che anzi si va estendendo in altre regioni d’Europa, e decide di abdicare (1556), dividendo l’impero in due parti: una (Spagna, ecc.) va al figlio Filippo II (1556-98), l’altra (Austria, Boemia, Ungheria) al fratello Ferdinando I (1556-64). Il fallimento della politica di Carlo V non è legato ad un suo deficit di abilità, ma alla sua visione delle cose, che appare anacronistica. Egli, infatti, combatte per la causa di un potere universale in un momento in cui l’ascesa degli Stati-nazionali è un dato di fatto inarrestabile. Con Carlo V decade definitivamente il ruolo politico del Sacro Romano Impero.
La Riforma lascia i paesi germanici profondamente divisi e il potere imperiale molto indebolito. Impegnati nella lotta contro i turchi, tanto Ferdinando I, quanto il di lui successore, Massimiliano II (1564-76), si dimostrano tolleranti con i principi protestanti, ma la situazione cambia con Rodolfo II (1576-1612), che, conclusosi il conflitto con i turchi (1601), può intraprendere una politica tesa a restaurare la religione cattolica e ad imporre l’egemonia asburgica in Europa. Nel 1618, Svezia, Francia e Danimarca, approfittando di una rivolta dei protestanti boemi e allo scopo di frenare la potenza degli Asburgo, decidono di prendere le armi contro l’imperatore Mattia (1612-9), dando così inizio all’ultimo grande conflitto di religione, la cosiddetta guerra dei Trent’anni, che si combatte quasi interamente in suolo germanico. Contro l’imperatore vengono impiegati eserciti mercenari, i cui soldati vengono reclutati fra vagabondi, banditi e disoccupati, attratti dalla possibilità di saccheggio. La guerra si conclude con la pace di Westfalia (1648), che segna il tramonto dell’età della Controriforma e l’inizio del declino dell’autorità papale, insieme alla definitiva consacrazione del principio della libertà religiosa. Nello stesso tempo, Westfalia segna il fallimento del tentativo egemonico degli Asburgo e disegna un nuovo quadro politico in Europa, che è favorevole a Inghilterra a Francia. La vera sconfitta è la Germania, che esce devastata e decimata da una guerra che ha provocato cinque milioni di morti, oltre che frammentata in una miriade di staterelli, ed è di fatto sotto la tutela dissimulata della Francia. Sotto il profilo giuridico, Westfalia stabilisce che i soggetti del diritto internazionale sono esclusivamente gli Stati sovrani, mentre i popoli, le nazioni, le etnie, le associazioni e gli individui svolgono un ruolo passivo e del tutto secondario (ZOLO 2004: 69).
Fra questi staterelli emerge la Prussia, che riesce a riprendersi dalle devastazioni della guerra e a darsi, sotto gli Hohenzollern, un’efficiente organizzazione amministrativa, militare ed economica, divenendo la maggiore potenza della Germania. L’artefice di questa ascesa è Federico Guglielmo (1640-88), che prima lotta per rendere indipendente la sua terra da influenze esterne, poi partecipa alla guerra di successione spagnola a favore dell’imperatore ricevendone in cambio il diritto di portare il titolo di re di Prussia (1701), e da allora assume il nome di Federico I. Suo figlio, Federico Guglielmo I (1713-40), organizza l’amministrazione del regno in modo fortemente centralistico e crea un potente esercito basato sulla coscrizione (1733). Federico II (1740-86) fa della Prussia il paese militarmente più forte e culturalmente più progredito del tempo, ma i suoi successori non saranno dello stesso spessore. La Prussia crolla sotto le armate di Napoleone, che entrano a Berlino (1806) e inducono l’imperatore Francesco II d’Austria ad abdicare, ponendo così fine al Sacro Romano Impero, che lascia al suo posto una Confederazione Germanica comprendente 40 Stati sovrani. A partire dal 1813, la Prussia si risveglia e partecipa alle battaglie vittoriose di Lipsia (1813) e di Watrerloo (1815), incarnando la speranza del sentimento nazionale germanico.

07. I portoghesi

Il Portogallo vorrebbe imitare la Spagna, ma, povero di uomini, non riesce a perseguire con costanza e determinazione una politica imperialistica, mentre riesce ad attuare una politica filocattolica, che è segnata dall’espulsione di ebrei e musulmani e dall’introduzione dell’Inquisizione (1536). Ai tempi della Controriforma, proprio mentre i mercanti portoghesi monopolizzano la tratta degli schiavi neri, si registra nel paese un’esplosione di fanatismo religioso che raggiunge il suo epilogo nella crociata del re Sebastiano (1557-78) contro i musulmani, il cui esito è la sconfitta e la morte del re stesso. Segue un periodo di lotte per la successione, di cui approfitta la Spagna per occupare il Portogallo (1580). Aiutati dall’Inghilterra, i portoghesi reagiscono e, dopo una lunga guerra, ottengono l’indipendenza (1668). Da questo momento e fino al XX secolo, la storia del Portogallo rimarrà condizionata dalla sua alleanza con l’Inghilterra.

06. Gli spagnoli

La caduta dell’impero atzeco (1521), ad opera dell’armata di Hernán Cortés, e quella dell’impero inca, per mano di Francisco Pizarro (1532), rappresenta l’inizio del dominio spagnolo, che si protrarrà per i successivi tre secoli, estendendosi a pressoché tutta l’America centrale e meridionale (con l’eccezione del Brasile) e portando con sé il cristianesimo. La Spagna si rafforza ulteriormente sotto il regno di Filippo II (1556-98), che estende il suo potere anche ai Paesi Bassi, al Portogallo e a quasi tutta l’Italia, ma deve poi affrontare un periodo di declino, segnato dalla prepotente ascesa dell’Inghilterra e degli stessi Paesi Bassi, che, non tollerando l’eccessivo fiscalismo spagnolo, si rivoltano con successo contro i dominatori (1566) e, infine, proclamano la Repubblica delle Province Unite (1581). Per la Spagna, che ha da poco raggiunto il culmine della sua grandezza, questa sconfitta segna l’inizio del declino, che è favorito da una cattiva gestione delle risorse economiche.
Il successore di Filippo II, suo figlio Filippo III (1598-1621), regna ancora sul più grande impero della terra e, nonostante la paralisi economica, può contare su un esercito, che è considerato il più forte in Europa. Questa stima dovrà essere modificata al ribasso dopo i ripetuti insuccessi militari, che decreteranno la fine dei sogni di egemonia in Europa, a vantaggio della Francia (1659). Gli Asburgo e la nobiltà spagnola si rivelano incapaci di approntare una qualche valida reazione al loro declino e si irrigidiscono in una politica sclerotica, che disdegna le innovazioni e l’industria. Con la morte di Carlo II (1665-1700), che non lascia eredi diretti, si apre una guerra per la successione fra Asburgo e Borbone. La guerra si conclude con i trattati di Utrecht (1713) e di Rastatt (1714), che assegnano a Filippo V di Borbone una Spagna territorialmente ridimensionata, mentre l’Inghilterra si fa riconoscere il monopolio della tratta degli schiavi nelle colonie spagnole.
Sotto il dispotismo illuminato di Ferdinando VI (1746-59) e Carlo III (1759-88), che lottano contro l’eccessivo potere della chiesa, la Spagna comincia a risalire la china, grazie anche all’opera di valenti uomini di Stato, che riorganizzano il paese. Ma Carlo IV (1788-1808) intraprende una politica perdente e nefasta, combattendo prima contro la Rivoluzione francese, poi contro l’Inghilterra, col risultato di perdere la flotta, distrutta nella battaglia di Trafalgar (1805), e, insieme ad essa, la capacità di controllare il suo impero coloniale. Il movimento di liberazione delle colonie inizia nel 1809 e si completerà di lì a pochi anni. La Spagna è ormai incapace di svolgere una parte di rilievo nella politica europea.

05. Gli inglesi

La corona inglese non è mai riuscita a superare l’opposizione, che veniva dalla borghesia, e non ha mai potuto esercitare un potere assoluto. Alla fine della guerra dei Cento anni, l’Inghilterra non ha ancora sviluppato alcuna propensione marinara e non possiede una flotta, né militare né mercantile. È una monarchia “debole”. Ebbene, nel corso del XVI secolo, i sovrani inglesi cambiano politica e si rivolgono al mare, dove però spagnoli e portoghesi la fanno da padroni: per il momento, i navigatori inglesi non possono far altro che ricorrere massicciamente alla pirateria e alla guerra corsara. Ciò consente loro di acquisire una straordinaria maestria nell’arte marinara, ma non di attuare una politica di potenza, anche perché manca una grande flotta. Non solo: i sovrani inglesi vogliono anche impegnarsi nella politica internazionale, dove si inseriscono nel confronto tra Spagna e Francia. La lievitazione delle spese, rese necessarie dalla nuova politica, induce Giacomo I prima e suo figlio Carlo I poi a ricorrere al Parlamento, cui chiedono l’appoggio ai fini di un aumento delle imposte. Il Parlamento però non accetta di collaborare e anzi approfitta dell’occasione per perseguire una politica anti-monarchica. Ne nasce uno scontro sempre più duro, che finisce per trasformarsi in guerra civile. Ancora una volta l’arbitrato viene affidato alle armi: il più forte avrebbe avuto ragione. Le truppe del re sono comandate dal principe olandese Rupert, quelle parlamentari dal generale inglese Oliver Cromwell. Nel 1647, Carlo I, sconfitto, si trova nelle mani del Parlamento, che vorrebbe eliminarlo ma, dal momento che l’opinione comune ritiene necessaria la monarchia, si accontenta di trasformarlo in un fantoccio. Carlo I però non accetta questa condizione e continua a tramare contro il Parlamento, fino a scatenare una nuova guerra civile. Questa volta il Parlamento non esita a farlo giustiziare (1649) e si pone ad unica guida del paese.
Il Presidente dell’Alta Corte di giustizia che condanna a morte il re si esprime così: “Signore, questa Corte è convinta che la legge sia superiore a voi, e che avreste dovuto regnare secondo i suoi precetti […]. Come la legge è superiore a voi, così esiste qualcosa di superiore alla legge, l’autore, il creatore della legge, cioè il popolo inglese”. Queste parole sanciscono di fatto il principio della sovranità popolare e il superamento dell’istituto monarchico per diritto divino, anche se bisogna aspettare i tempi della Gloriosa Rivoluzione perché tale principio trovi piena applicazione.

05.1. I livellatori
Nei fatti che, dal 1647 al 1649, portano all’esecuzione capitale di Carlo I, un ruolo decisivo è svolto da alcuni gruppi estremisti che, per il tipo di idee che li anima, vengono chiamati “livellatori”. Oltre a sostenere che il potere politico deriva dal popolo, essi vogliono anche l’uguaglianza di tutti gli uomini e di tutte le donne e predicano la tolleranza religiosa. Una minoranza al loro interno, i cosiddetti “zappatori”, giunge ad invocare l’abolizione della proprietà privata (BRAILSFORD 1962). Queste idee non sono condivise dalla maggioranza degli inglesi e i livellatori spariscono rapidamente dalla scena.

Il nuovo governo appare debole e inadeguato a fronteggiare i problemi sociali e il popolo è scontento. Della situazione approfitta Cromwell il quale, appoggiato dall’esercito, scioglie il Parlamento e assume la dittatura (1653), mentre rifiuta il titolo di re. Anche se, di fatto, c’è poca differenza tra la vecchia monarchia e la nuova dittatura, tuttavia, nel loro complesso, gli eventi degli ultimi decenni hanno finito per indebolire il modello monarchico e quando, qualche anno dopo (1660), sempre con la forza delle armi, la monarchia verrà restaurata, il potere del re non è più quello di un tempo, essendo stato superato dal potere del Parlamento. Da quel momento nessun monarca inglese potrà più pretendere il potere assoluto.
Si definisce Gloriosa Rivoluzione quell’insieme di eventi che hanno luogo tra il 1688 e il 1689 in Inghilterra, quando il legittimo re Giacomo II Stuart, cattolico, viene deposto da Gugliemo III d’Orange, che gli succede al trono con il beneplacito del Parlamento e i favori della pubblica opinione, instaurando una monarchia parlamentare. Nel 1689 Guglielmo III promulga una Dichiarazione dei diritti, una legge simile alle moderne Costituzioni, la quale stabilisce che nessuna legge potrà entrare in vigore senza l’approvazione del Parlamento. Anche se il governo inglese rimane di tipo aristocratico e il popolo continua ad essere escluso dalla pienezza dei diritti politici, siamo di fronte al primo esempio di Stato liberale della storia. La Gloriosa Rivoluzione “rappresenta il trionfo della borghesia capitalista” (MOUSNIER 1953: 263). “Politicamente l’Inghilterra è una monarchia costituzionale con un re e due camere. Ma queste due camere rappresentano soltanto i ricchi. La Camera dei lords si compone di grandi signori, lords per eredità, vescovi e arcivescovi quasi sempre usciti dall’aristocrazia, e di lords che il re può nominare a suo piacimento fra i cittadini che hanno reso grandi servigi al paese, e che il re sceglie fra i ricchi. La Camera dei Comuni è costituita di deputati eletti da città e borghi e dalle campagne o contee, ma sempre su base censitaria: bisogna essere benestante per votare. Praticamente soltanto i ricchi possono essere eletti […]. L’Inghilterra è una plutocrazia” (MOUSNIER, LABROUSSE 1955: 162).
Le particolari condizioni politiche, che sono favorevoli all’iniziativa privata, l’espansione coloniale, che rende disponibile una grande quantità di materie prime e amplia considerevolmente il mercato, e l’invenzione della macchina a vapore (1764), che è in grado di svolgere il lavoro di diversi uomini, tutto ciò può spiegare quel fenomeno, esclusivamente inglese, che va sotto il nome di Prima rivoluzione industriale (1760-1840) e che rappresenta l’ingresso nel mondo del capitalismo moderno. A causa delle recinzioni delle terre e dell’impiego delle macchine molti contadini si vedono costretti ad abbandonare la campagna e vengono assunti come operai salariati nelle fabbriche, dove svolgono attività ripetitive. Per il momento essi sono quasi del tutto privi di diritti e il loro lavoro è da macchina, ma quanto meno hanno trovato un modo per sostentare se stessi e le proprie famiglie. Con la promulgazione delle prime leggi atte a regolamentare il lavoro (1802) inizia per l’Inghilterra una nuova fase economico-politica caratterizzata dall’intervento dello Stato nei rapporti fra imprenditori e operai, che viene a modificare i principî del laissez-faire.

04.6. Il Papato nel XVIII secolo

Nel complesso, il papato di questo secolo appare politicamente debole e orientato ad occuparsi maggiormente di questioni pastorali e dottrinali.
Clemente XI (1700-21) si intromette nella lotta di successione spagnola e si occupa di questioni dottrinali, che si agitano all’interno della chiesa.
Innocenzo XIII (1721-4) è un papa saggio e prudente, che lotta aspramente contro le corti in difesa dei diritti e delle prerogative della Santa Sede, ma il più delle volte senza successo.
Benedetto XIII (1724-30) si distingue per una politica prudente e conciliante, che però non basta a sanare la questione con Giovanni V di Portogallo, che pretende di nominare cardinali di corona.
Clemente XII (1730-40) cerca di mantenere una posizione equilibrata e neutrale, e si barcamena come può in campo politico, ma senza riuscire né ad annettere il ducato di Parma e Piacenza, né ad salvare il suo regno dalle scorrerie e dalle devastazioni degli eserciti contendenti, a dimostrazione della ormai persistente debolezza dei papi.
Benedetto XIV (1740-58) è un papa buono, premuroso, caritatevole, sensibile ai bisogni del suo popolo, riformatore.
Clemente XIII (1758-69) ha doti di buon pastore, ma la condanna dell’Enciclopedia (1759) rivela la sua ostilità verso l’estensione del sapere alle masse, mentre la disposizione di coprire le nudità delle opere artistiche rileva il suo eccessivo moralismo, che rasenta la bigotteria.
Pio VI (1775-99) deve confrontarsi con la politica antiecclesiale della Francia repubblicana. Fra i suoi atti politici di maggior rilievo, vanno ricordati la condanna della Costituzione francese (1791) e il riconoscimento della Repubblica (1796), due prese di posizione contrapposte, che rivelano un momento davvero difficile per il vescovo di Roma.

04.5. Avanti tutta verso il capitalismo

In questo periodo si assiste al declino del vecchio colonialismo portoghese e spagnolo, che deve soccombere alla concorrenza di altri paesi, come Olanda, Inghilterra e Francia. Cambiano i metodi, ma rimane la sostanza, che è quella di uno sfruttamento intenso e spietato delle risorse materiali e umane, secondo la suprema logica del profitto capitalistico. Da questo momento, il denaro non è più un semplice mezzo di scambio, ma un bene in sé. Nello stesso tempo, viene esasperato il concetto giuridico di proprietà privata esclusiva, che si concretizza nella recinzione di quelli che prima erano latifondi con possibilità di uso comune.
Dal punto di vista economico, rispetto al secolo precedente, il fenomeno più importante del Settecento è certamente l’affermazione della manifattura e dell’industria, anche se la bottega artigiana rimane ancora predominante, così come rimangono operative le vecchie corporazioni medievali, che tendono al monopolio e si oppongono al libero mercato. Con l’affermarsi dell’industrializzazione, nascono nuove classi sociali, come quelle degli operai salariati e degli imprenditori o capitalisti, e la società diventa più complessa.
Il commercio è ormai decisamente spostato verso le colonie americane, i cui prodotti risultano più convenienti, anche a causa della manodopera a buon mercato resa possibile dalla tratta dei negri, la quale, a sua volta, costituisce anch’essa una florida attività commerciale. La diffusione delle prime macchine agricole determina un incremento della produzione agricola e del surplus. Tutto ciò contribuisce a cambiare la mentalità della gente, che adesso non vede più nella terra una semplice fonte di cibo, necessario per sfamare le famiglie dei proprietari e dei contadini, ma un mezzo atto a perseguire un profitto. La mentalità capitalistica inizia così a penetrare anche nelle campagne, consentendo il passaggio dall’agricoltura di sussistenza all’agricoltura industriale.

04.5.1. La borghesia
Col termine borghesia ci si riferisce ad un particolare ceto sociale, che, affacciatosi in Europa agli inizi del secondo millennio d.C., ha finito per caratterizzare la società moderna e contemporanea. Inizialmente i borghesi erano coloro che vivevano in città (nel borgo), in contrapposizione ai nobili, che vivevano nelle campagne. È a partire dalla Rivoluzione francese che si comincia a ritenere che non solo la nascita o il sangue, bensì anche i meriti fanno i «migliori»; anche i meriti stanno alla base delle carriere e delle ricchezze. Ciò che distingue i borghesi nei confronti della classe contadina è il fatto di essere impegnati in attività commerciali e finanziarie. Ecco perché ha senso parlare di B. solo in società di mercato e in relazione al denaro. Col passare del tempo, i ricchi cominciano prima ad affiancarsi ai nobili, poi a soppiantarli. Nel mondo anglosassone il termine B., manca e al suo posto si usa parlare di middle class, termine che indica meglio la realtà di oggi, che è tutta orientata al denaro (CAFAGNA 1991: 558-9).

04.5.2. La povertà
Nel periodo storico i poveri ci sono sempre stati, tuttavia, la povertà, come problema sociale, è un fatto recente, che è iniziato nel XVII secolo ed ha raggiunto il culmine con la rivoluzione industriale ed il capitalismo moderno. Più in particolare, il fenomeno esplode in tutta la sua drammaticità allorquando nell’Inghilterra elisabettiana si decide di recintare le proprietà private escludendone così l’accesso a tanta povera gente, che nel passato viveva proprio sfruttando una serie di diritti consuetudinari sulla proprietà altrui. Da quel momento una massa di indigenti, vagabondi e accattoni si riversa nelle città, rendendo ben visibile il fenomeno della povertà. Ma il problema non è solo inglese: è di tutti i paesi dove si va affermando il capitalismo.
Nell’ancien régime la povertà era innanzitutto una condizione umana, che affondava le sue radici in un ineluttabile “ordine” naturale e divino e richiedeva solo un atteggiamento caritatevole, il cui scopo era di alleviare il fenomeno, non di risolverlo. E siccome il fenomeno non era bello da guardare, nel XVI secolo, lo Stato aveva ritenuto di recludere gli emarginati nel grigiore di apposite istituzioni, lontano dalla vista della gente per bene.
Nel corso del XVIII secolo, si comincia a pensare che il problema della povertà non possa essere affidato alla semplice carità, ma che debba essere compito dello Stato di garantire a tutti il diritto alla sussistenza (cfr. Montesquieu, Lo spirito delle leggi XXIII, 29).
Nella pratica questo principio non viene applicato in modo incondizionato, ma solo e parzialmente nei confronti dei cosiddetti “poveri vergognosi”, di quei poveri cioè che provano vergogna per la loro condizione, che sono disposti a lavorare, che accettano le leggi vigenti e i valori comuni, che rispettano la gerarchia sociale e sono pronti a fare il possibile per non dare nell’occhio e per vivere con dignità e discrezione la loro vita di cittadini sfortunati. Diverso è l’atteggiamento nei confronti dei vagabondi abituali e di coloro che vivono contestando l’ordine sociale costituito e disprezzando lo status quo. Al pari dei delinquenti, per costoro è prevista la prigione, a meno che non si risolvano a lavorare. “I poveri – scrive Turgot A.R.J. nel 1770 – si dividono in due categorie, che devono essere soccorse in modo diverso. Ce ne sono che l’età, il sesso, le malattie non mettono in condizione di guadagnarsi da vivere da soli; altri che possono lavorare. Soltanto i primi devono ricevere dei soccorsi gratuiti; gli altri hanno bisogno di salari, e la carità più opportuna e più utile consiste nel dar loro il modo di guadagnarseli” (tratto da PROCACCI 1998: 44-5).
Le prime misure adottate da un governo a favore degli strati più poveri della popolazione risalgono ai tempi della Rivoluzione francese, allorquando si comincia a pensare che siano necessarie leggi di tutela della gente più povera, che prevedano non solo sussidi per i più bisognosi, ma anche e soprattutto il diritto al lavoro. Nello stesso tempo comincia a farsi strada l’idea che l’ignoranza sia “largamente responsabile della cattiva condotta dei poveri” (PROCACCI 1998: 198) e si comincia ad intravedere l’opportunità di una istruzione gratuita e obbligatoria per tutti: la Dichiarazione dei diritti del 1793 sancisce questi princìpi negli art. 21 e 22, indicando, come preciso scopo dello Stato, quello di fare di ciascun membro della collettività un cittadino virtuoso e responsabile. Continua a rimanere, tuttavia, opinione diffusa che la povertà costituisca un fenomeno sociale ineliminabile: “La povertà ¬–scrivono Tuetey A. e Bloch C. ai tempi della Rivoluzione– è una malattia inerente ad ogni grande società: una buona costituzione, un’amministrazione saggia possono diminuirne l’intensità, ma sfortunatamente niente può distruggerla radicalmente” (tratto da PROCACCI 1998: 64).
A partire da Sieyès (1791), si comincia a fare una distinzione tra cittadini attivi e passivi, come dire cittadini di serie A e B, cittadini proprietari e poveri, riproponendo, in tal modo, il classico modello della società duale, disegualitaria. “Il concetto di cittadinanza rivela così un doppio volto, che gli conferisce una natura intrinsecamente ambigua: esprime da una parte l’eguaglianza che trionfa contro i privilegi, dall’altra le distinzioni della nuova società. Tutti sono cittadini uguali, ma non tutti lo sono ugualmente” (PROCACCI 1998: 70). In teoria, l’essere cittadino implica il diritto all’autodeterminazione e alla partecipazione diretta alla politica, in pratica, invece, si constata che, in una grande nazione, com’è la Francia, è impossibile governare senza ricorrere alla “delega” (PROCACCI 1998: 73). La sovranità del popolo finisce allora col ridursi al diritto di eleggere i propri rappresentanti, che, di norma, appartengono al ceto abbiente e governano in nome del popolo e nel proprio interesse.
Non solo la miseria rimane, ma continua ad avere la stessa valenza negativa di sempre e il cittadino povero viene considerato un “uomo inutile” (PROCACCI 1998: 87). Questa ambiguità si riflette nel contrasto tra l’attività legislativa a favore dei poveri e l’opinione prevalente fra gli studiosi, che contestano l’effettiva utilità di queste leggi. Così, le leggi sui poveri emanate nel corso del XVIII sec. non sono si rivelano costose e inefficaci, ma sono fatte oggetto di critica da ogni parte, soprattutto perché, si dice, aiutare il povero equivale a riconoscere statuto legale alla povertà, a cristallizzare e istituzionalizzare lo stato di miseria.